
Francesco Amoroso per TRISTE©
«Ella non c’è ed io la vo’ cantare/ la frase che m’ha fatto palpitare:
“Vorrei baciare i tuoi capelli neri/ le labbra tue e gli occhi tuoi severi
Vorrei morir con te angel di Dio/ O bella innamorata tesor mio”»
(Martino Stanislao Luigi Gastaldon, Musica proibita, 1881)
Sono più di vent’anni che Josephine Foster, inquieta e inquietante, incide dischi strani e meravigliosi, con quella sua voce fori dal tempo, demodé e vagamente polverosa e con uno stile sfuggente e inclassificabile. Sarà che da ragazzina cantava nel coro della chiesa, sarà che per lungo tempo ha aspirato a diventare una cantante d’opera, sta di fatto che la sua voce e le sue composizioni albergano in luogo dell’anima che è soltanto suo, al riparo dal vento deturpante della modernità o della sperimentazione a ogni costo.
Dal mio punto di vista la sua musica è sempre stata un mistero, spesso affascinante, qualche volta respingente. La sua voce è stata in tante occasioni fonte di meraviglia e di entusiasmo, salvo, qualche volta, arrivare fino a infastidirmi.
Fuorviato da accostamenti pretestuosi (ricondurre la sua opera nell’alveo del cosiddetto weird folk è chiaramente riduttivo) ho spesso faticato a penetrare l’arcano della sua musica e tale difficoltà “intellettuale” non mi ha permesso di lasciarmi andare ad amare i suoi lavori senza riserve.
Fino a Domestic Sphere.
È certamente vero che negli oltre vent’anni della sua carriera (con all’attivo quasi venti album tra solisti e collaborazioni) la musicista del Colorado (il cui aspetto me la fa accostare più facilmente a una poetessa anglosassone dell’ottocento che a una cantante rock del nuovo millennio) ha sempre percorso strade secondarie e discoste, scegliendo spesso il percorso più impervio e complicato e che il suo nuovo lavoro, l’austero e magico Domestic Sphere, non è un’eccezione alla regola, ma, evidentemente – come del resto dice il titolo- stavolta Foster ha deciso di aprirsi di più e di esplorare territori più vicini alla propria quotidianità e alla propria storia familiare, permettendo a me e a chi come me ha bisogno di una connessione più empatica con la musica, di fare un po’ di luce sui suoi riti segreti.
Imperniato esclusivamente sulla chitarra elettrica e sulla voce unica di Foster e impreziosito da field recordings, suoni della natura e registrazioni che sembrano spesso provenire da una dimensione aliena, Domestic Sphere ha la grana sottile della polvere che si deposita sui mobili delle casa che sono state abbandonate, dopo tanti anni di brulicante vita, ha la luce diafana che penetra all’alba da una finestra priva di imposte. Sembra raccontare insieme le desolate distese dei deserti del Colorado e la cupa soffitta con un abbaino che da sul porto di New York. E’ una poesia sommessa, che non vuole essere consolatoria, ma neanche gratuitamente provocatoria.
Grazie alla coproduzione frammentata e quasi narcolettica di Daniel Blumberg, che comprende il frinire di grilli, un gufo, un gregge di pecore, il lamento dei gatti in amore, uccelli e rane del Colorado e del Tennessee, il vento e lo stesso produttore che accende un fiammifero, l’album suona intimo, schivo, eppure potente e penetrante. Evoca spettri e fantasmi, visioni e reminiscenze.
Ciò che, tuttavia, ha fatto definitivamente scattare in me quell’empatia di cui, in altre occasioni, ho sentito la mancanza e che mi ha permesso di penetrare un po’ nelle nebbie che Foster è abituata sollevare attorno alla propria musica -quasi come una cortina di fumo protettiva- è stato ascoltare la commovente e flebile voce della bisnonna dell’artista, Filomena Maltese (nata a Napoli nel 1893), registrata dal nonno Robert, che, all’inizio degli anni settanta a New York, canta la romanza ottocentesca Musica Proibita. Inserito nella sublime Reminiscence, questo frammento di memoria (tramandata, suppongo), è quanto di più intimo e personale Josephine Foster abbia mai condiviso e diventa un’esperienza emozionante e trascendente che, in qualche modo, rende più evidente e comprensibile l’ispirazione dietro il suo peculiare e suggestivo modo di cantare.
In Domestic Sphere, le canzoni si susseguono senza pausa, si fondono, si sovrappongono in richiami sonori e in suggestioni (Sanctuary presenta un passaggio di chitarra già presente in Entrance, in Pendulum c’è lo stesso organo che troviamo in Shrine Excerpt) ed evocano qualcosa di magico e sempre leggermente fuori fuoco, eccentrico, vagamente inquietante. Foster canta della propria vita intima e del proprio retaggio e titoli come Sanctuary, Haunted House, Reminiscence o Birthday Song for the Dead, sono lì a testimoniarlo.
Più che un album di “musica leggera”, Domestic Sphere è, così, una sorta di incantata capsula del tempo che conduce l’ascoltatore nei luoghi e nell’animo della sua autrice, cui la coproduzione organica e minimale di Daniel Blumberg conferisce intensità e pathos.
Un lavoro di squisita delicatezza, che si rivela a poco a poco, come una tenera e appassionata liturgia laica che unisce misticamente le generazioni, il presente e il passato, l’uomo e la natura.