
Francesco Giordani per TRISTE©
Potrei e dovrei forse parlarvi, per restare in tema di retro-meraviglie britanniche, dei ritorni più o meno godibili di Vaccines (che fanno il paio con i sodali Spector, riaffacciatisi alle cronache lo scorso dicembre, senza troppi clamori) o Shed Seven (capaci persino di agguantare la vetta delle classifiche albioniche per la prima volta a trent’anni esatti dall’esordio Change Giver…) ma non ne varrebbe troppo la fatica né l’inchiostro. Trattasi infatti, per ambo i lavori, di onesto quanto prevedibile fan service di buona (diciamola tutta: men che discreta) mano e poco altro. Dolcezze anche gradite che però si sciolgono in bocca (o nelle orecchie dir si voglia) troppo presto per lasciare durevoli ricordi in chi le assapori. E che comunque, rimanendo all’ombra del Big Ben, il saettante arcobaleno schizzato in punta di ugola e plettro da Liam Gallagher e John Squire tende a far scivolare in un secondo se non già terzo piano del paesaggio sonoro di queste prime settimane del 2024.
Visto che, tra l’altro, l’anno appena iniziato è stato per chi scrive meravigliosamente battezzato da due reduci di lusso di quella piccola età dell’oro che furono i cosiddetti “Anni Zero” ovvero Bill Ryder-Jones e Tim Smith (also known as Harp), tanto vale chiudere il triangolo con un progetto che nel medesimo periodo affonda le proprie lunghe radici. Se i nomi di Felix e Hugo White poco vi dicono, pure dovrebbe suonarvi famigliare il nome della band che li ha resi per qualche tempo celebri in patria e fuori: i Maccabees. I quali, scioltisi nel 2017 al culmine di un’epopea ricca, ancorché breve, di gloriose conquiste (persino un Ivor Novello), hanno sinora continuato a vivere nelle memoria dei non pochi affezionati esclusivamente grazie alle imprese solitarie del cantante e principale autore Orlando Weeks, da queste parti già ampiamente lodate.
Dei Maccabees i fratelli White furono entrambi chitarristi -lasciatemi peraltro versare una lacrima di amaro rimpianto per quei tempi di bande grasse, nei quali ci si poteva ancora permettere lo scialo di ben tre chitarre in organico…
I due tornano ora, accompagnati dal terzo fratello Will al basso e da Jamie Morrison (ex Noisettes e Stereophonics) alla batteria, sotto la sigla 86TVs, con un ep d’esordio marcato Parlophone.
You Don’t Have To Be Yourself Right Now recita il titolo del disco (ma anche il ritornello del singolo inaugurale Worn Out Buildings, pezzo bellissimo che i Coldplay oggi non saprebbero scrivere), quasi a rimarcare l’esigenza di una liberazione dai vincoli del passato a favore di un adesso in larga parte ancora da inventare e da scoprire. Nondimeno l’impressione è che gli 86TVs (ri)partano esattamente da dove i Maccabees si erano fermati, nel 2015, con lo splendido Marks To Prove It. Immutata rimane infatti, nelle nuove Higher Love e Spinning World (autentica perla), l’ambizione dei Nostri di dare forma compiuta ad una big music soave ed elegiaca, capace di connettere le vibrazioni wave di Echo & The Bunnymen, Psychedelic Furs e U2 al sentimento palpitante di Radiohead, Arcade Fire, Interpol, The National.
Significativa novità, rispetto alla produzione di epoca Maccabees, è semmai il più insistito ricorso a cori e armonizzazioni vocali, che non lasciano troppo rimpiangere l’assenza di un vocalist magnetico come Weeks.
Un ruolo non trascurabile nell’orientare la scrittura dei brani è stato svolto anche da un certo Jonny Marr. Come ha dichiarato lo stesso Felix White ad NME infatti: “I Maccabees si erano sciolti da poco quando ho letto l’autobiografia di Johnny Marr. È stato davvero sorprendente perché gran parte della sua vita è stata incentrata sulla reinvenzione e sul cambiamento. In quel momento avvertivo come una correlazione fra la mia vita e ciò che Johnny raccontava nel suo libro. L’ho incontrato agli NME Awards e gli ho detto: “Posso mandarti un po’ di musica? Abbiamo appena fatto della musica strumentale e non sappiamo se è buona”. Quindi gli ho mandato tutti questi brani strumentali, il che in realtà è stata una cosa piuttosto sfacciata da fare, ripensandoci.”
Di quel materiale primitivo, non ancora ricondotto a canzone, par di cogliere qualche traccia sparsa nelle tessiture e digressioni impressionistiche che ammantano la conclusiva Dreaming, piacevolmente abbandonata alla sua deriva di bagliori e luminescenze inafferrabili.
Alchimista alla console di produzione è d’altra parte quello Stephen Street che, fra Smiths e Blur (e infiniti altri nel mezzo e dopo), qualcosa per la musica del Regno ha pur fatto di memorabile.
Sperando che un album vero e proprio non tardi troppo a palesarsi, altro non ci rimane da fare che gioire per un’anticipazione che ha il sapore dolcissimo tanto della nostalgia quanto, se non soprattutto, dell’attesa.
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