Francesco Giordani per TRISTE©
Nei miei vagabondaggi telematici mi sono imbattuto in un bell’articolo del Tascabile grossomodo dedicato alla musica di 1984 (nel senso del celeberrimo, sempre incredibilmente contemporaneo, romanzo orwelliano) o, per meglio dire, ispirata a 1984. Leggendolo, mi ha letteralmente folgorato un passaggio del romanzo riportato ad inizio articolo, che trascrivo nella sua interezza: “La melodia perseguitava Londra da settimane. Era una delle innumerevoli canzoni simili pubblicate a beneficio dei proletari da una sottosezione del Dipartimento di Musica. Le parole di queste canzoni sono state composte senza alcun intervento umano su uno strumento noto come versificatore. Ma la donna cantava così melodiosamente da trasformare l’orrenda spazzatura in un suono quasi piacevole.“
Poco più avanti, l’autore dell’articolo osserva: “Poter scrivere una canzone automatica nel pop è possibile, basta una app sul telefonino o semplicemente reiterare quei tre-quattro accordi che funzionano in quel dato periodo storico, fino ad esaurimento e via, ricominciando con un altro standard che calmerà i bollenti spiriti degli ascoltatori portandoli su una comfort zone che non è dissimile da quella prodotta nella musica che il Partito rifila a tutti in 1984.”
Parole che mi hanno inquietato non poco, devo dire, e che fotografano una situazione assai complessa ma anche ricca di sviluppi forse inattesi come, per fare un esempio recente, l’imprevedibile riviviscenza economica dei cataloghi storici delle maggiori etichette discografiche che, nell’era dello streaming, quasi alla stregua di un bene rifugio di natura affettiva, rappresentano oggi circa il 70% del mercato statunitense (lo si legge in un interessantissimo articolo apparso sull’Atlantic).
Sono quindi grato ad artisti laterali, sfuggenti e quasi ineffabili, come Hayden Thorpe (di cui vi ho parlato qualche mese fa) o Orlando Weeks, reduci di una stagione dorata di “musica nuova” consumatasi nel cuore degli anni Duemila (rispettivamente alla guida di Wild Beasts e Maccabees) e oggi solitari quanto ispirati creatori di un pop romanticamente “fuggitivo”, per lo più irriducibile ad etichette o standard orwelliani e, proprio per questo, tanto più necessario, prezioso e originale.
Weeks è in tutto e per tutto un elegante esule dell’indie-pop, un dissidente e un disertore indefessamente devoto, anche in questo suo secondo lavoro, ad un’arte della canzone che, rispetto all’esordio solista di due anni fa, ha saputo farsi ancora più sottile, immediata, comunicativa. Rimane intatto il suo registro per lo più onirico, quel peculiare passo narrativo sospeso tra la visione magica e la favola (del resto Weeks ne ha scritta e musicata una) che, anche grazie ad un falsetto di straordinaria duttilità timbrica, ammanta di un vibrante afflato lirico canzoni meravigliose e vivissime come Look Who’s Talking Now, Bigger, Hey You Hop Up e Big Skies, Silly Faces (di quest’ultima raccomando anche la versione remix estesa di Roosevelt).
Forse definire la musica di Weeks un esempio quasi perfetto di “pop resistente” equivarrebbe a gravarla di un compito storico che non le compete. Né Weeks, comprensibilmente, nella sua ricercata, quasi programmatica, “minorità” di outsider poetico accetterebbe di assolvere un simile compito, figuriamoci. Eppure se dovessi provare a descrivere la sua arte musicale a chi ancora non la conosce, in questi anni post-1984, direi: qualcosa che ti fa ricordare di essere ancora umano.
E poi gli farei ascoltare: Big Skies, Silly Faces.
Pingback: Nilüfer Yanya – Painless | Indie Sunset in Rome
Pingback: Le firme di TRISTE©: il 2022 di Francesco Giordani | Indie Sunset in Rome
Pingback: Westerman – An Inbuilt Fault | Indie Sunset in Rome