
Francesco Amoroso per TRISTE©
“Silent whispers, or some kind of words”
(The Ring)
Sebbene personalmente sia sempre stato molto scettico circa la possibilità di incasellare artisti e band in una scena o in un genere preciso, devo ammettere che, quando mi trovo di fronte a un album di Fog Pop avrei davvero grandi difficoltà a trovare un termine migliore per descrivere il suo contenuto sonoro. Si parla di Fog Pop da almeno due o tre anni, un termine decisamente centrato, coniato proprio da Glenn Donaldson, che con i suoi The Reds, Pinks & Purples, è un po’ il pioniere e il catalizzatore della scena proveniente da San Franciso e dalla Bay Area. Se dovessi provare a descrivere questo “genere”, a chi -ahilùi- non si è mai imbattuto in una delle numerose produzioni che, in qualche modo si rifanno a questa scena, potrei provare a menzionare le chitarre jangle, i ritmi rilassati, le registrazioni Lo-Fi, il minimalismo, una certa candida sincerità e una smisurata passione per l’indiepop “da cameretta” britannico degli anni ’80 (fatto da gente che di nebbia se ne intendeva, in effetti). Potrei citare le melodie e la disarmante semplicità delle strutture sonore. Se, però, dovessi scegliere una sola band non potrei fare a meno di citare i Flowertown: il Fog Pop!
Ognuna delle band che gravitano intorno a questa scena (che, come tutte le scene, è fatta di connessioni, amicizie, concerti in comune, ma anche di semplice vicinanza geografica, o comunità di interessi e influenze musicali) ha le proprie caratteristiche sonore e il proprio stile, ma, c’è una sorta di spirito comunitario che le unisce, se non una specie di comunità di intenti.
Non è un caso, così, che proprio i Flowertown possano rappresentare al meglio la scena: il duo di San Francisco è composto da Karina Gill dei Cindy e Mike Ramos, aka Tony Jay, due realtà artistiche centrali per lo sviluppo delle sonorità della Bay Area che, proprio con questo progetto, hanno sviluppato, nel corso della loro breve ma intensa carriera artistica (quattro album in quattro anni), un suono che ha in sé tutte le caratteristiche che ho richiamato nel goffo tentativo di descrivere il fog pop.
Anche nel loro nuovo album, Tourist Language, uscito nuovamente per quella Paisley Shirt Records, che è tra i principali artefici della nascita e del consolidamento della scena (e che ricorda, per spirito pioneristico e passione etichette mitiche come la Drive-In, la Wurlitzer Jukebox o i primi vagiti della Creation), la voce di Gill è il fulcro attorno al quale girano tutte le canzoni. Eppure non è mai in primo piano, non è una voce stentorea o particolarmente melodiosa. E’ solo la voce della nebbia, la voce dei ricordi -spesso sbiaditi, confusi- la voce di sentimenti indefiniti, di sensazioni intense eppure fuggevoli, la voce di quella persistente e malinconica nostalgia della quale vorremmo tanto liberarci e che, tuttavia, ci è tanto cara.
Se le canzoni di Flowertown girano intorno alla voce di Karina Gill, il contributo di Mike Ramos è altrettanto importante, con le sue chitarre e una voce androgina che sembra incastrarsi alla perfezione con quella della collega.
I riferimenti che i due musicisti riescono a richiamare con i loro brani semplici ed efficacissimi sono davvero disparati: dall’inevitabile richiamo ai Velvet Underground (la title track Tourist Language, la chitarra della brevissima February 15th) al meno scontato rumorismo melodico dei Jesus And Mary Chain (No Good Trying sembra un brano dei primi fratelli Reid, mondato dal loro cinico menefreghismo), dalle languide ballate dei Chromatics (la “dolcissima” Bitter Orange potrebbe esserne un demo) a passaggi quasi pastorali (il narcolettico incedere del brano d’apertura 00, con la sua armonica, la soave nenia di Count To Nine).
Le loro canzoni, che a un ascolto distratto potrebbero quasi passare inosservate, hanno una personalità forte -mi verrebbe da dire “la forza della debolezza” se il concetto non fosse un po’ troppo legato a una certa spiritualità- ma la strumentazione che sembra filtrata attraverso una coltre di… nebbia, echeggia ovattata, lasciando spazio all’immaginazione dell’ascoltatore.
Sotto la luce obliqua dei Flowertown anche la quotidianità assume un aura vagamente soprannaturale, quasi come se la vita di tutti i giorni fosse vissuta in uno stato di perenne dormiveglia.
Altrove si parlava della poesia del quotidiano, qui potrei parlare di pura magia, perché la quiete che pervade Tourist Language appare, nel caos che ci circonda, una sorta di vero e proprio prodigio.
Nessuno degli straordinari album realizzati dalla scena fog pop di San Francisco mi pare sia entrato nelle classifiche, e probabilmente solo The Reds, Pinks & Purples hanno una audience piuttosto vasta, ma mi auguro che presto anche i Flowertown riusciranno ad avere il riscontro che meritano. Per quanto mi riguarda non finirei mai di farmi stordire dalle loro languide chitarre e dalle loro voci lontane e sono certo che i loro dischi (così come quelli dei Cindy e di Tony Jay) verranno riscoperti prima o poi e apprezzati, come meritano, come dei classici fuori dal tempo.
Oppure rimarranno solo un segreto sussurrato, avvolto in un sottile e persistente strato di nebbia. Li ameremo comunque.
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