The Reds, Pinks & Purples – The Town That Cursed Your Name

Francesco Amoroso per TRISTE©

Music toys with time. Or, maybe songs reflect back that time is always toying with us“.
Così iniziano le brevi note scritte da Karina Gill (Cindy, Flowertown) per accompagnare l’uscita del nuovo lavoro di Glenn Donaldson e dei suoi The Reds, Pinks & Purples.
E, ascoltando i dodici brani raccolti in The Town That Cursed Your Name, non possiamo che concordare con la musicista di San Francisco, per una volta prestata alla scrittura.
Sì, perché ascoltando le canzoni di Donaldson ci troviamo inevitabilmente in un vortice temporale, nel quale passato e presente si confondono e si sovrappongono, l’adolescenza e l’età matura si fondono circonfuse da un luminoso alone di nostalgia che rende tutto più fuori fuoco, ma proprio per questo più attraente e sopportabile.
Ma andiamo, se è possibile, con ordine.

Quello che fino a poco fa era il segreto meglio custodito della scena underground di San Francisco, non lo è ormai più per nessuno: con il suo quinto album in cinque anni (oltre a un’infinità di brani ed EP digitali e a qualche bonus album allegato alle uscite ufficiali), il prolifico Glenn Donaldson (che anche stavolta suona tutti gli strumenti, a parte il piano in Break Up the Band) ribadisce definitivamente il proprio status di figura centrale per il movimento jangle pop della Bay Area, dedicando l’album a “tutti coloro che hanno mai provato a fondare una band nella Baia“. Ma, come dice sempre Karina Gill: “But, this dedication captures something else about the particular strain of sincerity that laces the city water supply – the front man around here is on stage under those lights evincing the fervor not of the pop star but of the biggest fan“.

The Town That Cursed Your Name è composto per metà da brani che tutti coloro che amano Donaldson (e sono, ne sono convinto, sempre di più) hanno già avuto l’occasione di ascoltare sui vari EP condivisi brevemente su Bandcamp, ma ciò non ne diminuisce affatto il valore, poiché Glenn riesce a inserire le sue canzoni in una narrazione coerente e in un contesto sonoro adeguato. Il nuovo lavoro, anzi, risulta il più coeso della sua produzione sia dal punto di vista musicale che da quello delle tematiche: se si escludono alcune ballate (la malinconica Here Comes The Lunar Hand, la languida Almost Change -che mi fa venire in mente i Biff Bang Pow!- e la struggente Break Up The Band), tutto è imperniato su canzoni brevi e fulminanti, che non raggiungono mai i tre minuti di durata, caratterizzate da ritmiche incalzanti e da chitarre incisive che esaltano, con i loro riff immediati e avvincenti, il talento melodico di Donaldson.
Canzoni come la sublime Leave It All Behind (che ricorda da vicino i Cure di Just Like Heaven) o Life In The Void, trascinante e malinconica allo stesso tempo, Too Late For An Early Grave, con le sue chitarre jangle irresistibili, la grintosissima Burning Sunflowers, What Is A Friend, I Still Owe You Everything (ma si potrebbe citarle praticamente tutte), chiariscono, senza troppi giri di parole (e armonici) che Donaldson è ormai, senza possibilità di smentita, il miglior songwriter in ambito guitar pop in circolazione.

Lo è, senza dubbio alcuno, perché è riuscito a creare un universo di canzoni e sentimenti universali partendo dal “lavello della cucina” del suo appartamento di San Francisco, riuscendo a comprendere il macroscopico e il particolare più insignificante, il grande e travolgente impeto di una vita e la sensazione minima e fuggevole di un attimo.
È inevitabile, così, che, all’ennesimo ascolto di una canzone di The Reds, Pinks & Purples, succeda qualcosa di sconcertante: se fino a qualche momento prima tentavamo ancora di analizzarne la struttura, il ritornello e i testi, di comprendere se rappresentasse un passo avanti (o laterale) nello sviluppo artistico di Donaldson, tutto a un tratto ci rendiamo conto che non possiamo che arrenderci definitivamente. Finiamo per comprendere che queste canzoni e questi suoni non si ascoltano semplicemente con le orecchie, non si immagazzinano nel cervello (e si fanno spazio nel cuore), ma sono ormai penetrati sottopelle, fino a diventare parte integrante del nostro DNA.
Le canzoni di Glenn Donaldson non sono altro da noi, sono noi, sono i nostri sentimenti, sono le nostre vite, magari solo rese un po’ interessanti e acusticamente gradevoli.
Se possiamo sostenere che siano, da qualche anno, la colonna sonora che segna la nostra esistenza, esaltandone anche le sfumature più tenui e impercettibili, cadenzandone il ritmo, sciorinando pensieri e parole che altrimenti avremmo difficoltà ad articolare, dobbiamo ammettere che, ormai, non vengono dal mondo esterno, ma arrivano direttamente da dentro.

The Town That Cursed Your Name è, in questo senso, solo un’ulteriore dimostrazione della maestria di Donaldson che, nel raccontare alti e bassi, sensazioni e situazioni legate al mestiere (all’arte?) del musicista (“Never climbed the charts, destroyed the stage”), riesce a riflettere sulla caducità delle cose (Too Late For An Early Grave), sul sempiterno impulso di lasciarsi tutto alle spalle per prendere il volo (Leave It All Behind), sulla insensatezza e spersonalizzazione del lavoro ripetitivo (Life In The Void: “Just over minimum wage/I guess you’re lucky just to be employed/I guess you’re lucky it’s not worse.”) e sul trascorrere inesorabile del tempo (Here Comes The Lunar Hand).
Che sia il miglior album di The Reds, Pinks & Purples o meno poco conta davvero, anche perché il modus operandi di Donaldson trascende in qualche modo il concetto stesso di album: le copertine dei suoi lavori vanno a comporre un puzzle fotografico che immortala Richmond, il quartiere di San Francisco dove risiede, i suoi testi raccontano una storia in continua evoluzione, le sue melodie suonano sempre nuove ed eccitanti, eppure sono un continuo omaggio al classicismo indie pop. Questo è solo un nuovo contenitore per una magia che qui si ripete dodici volte, ma che arriva da lontano e che probabilmente non si esaurirà mai (o, almeno, così mi auguro).

La grande forza di Glenn Donaldson risiede proprio nella capacità di rinnovare ogni volta questa magia, nel costringerci gentilmente ogni volta a tornare alle sue canzoni. E, ogni volta, a renderci conto che siamo fatti delle sue canzoni.

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