
Francesco Giordani per TRISTE©
Sono recentemente caduto preda di un’infatuazione (l’ennesima…) piuttosto bizzarra, come spesso capita a noi audiomaniaci ossessivo-compulsivi, maestri nell’arte oziosa delle liste discografiche, degli elenchi di titoli appuntati nel risvolto di copertina dell’ultimo numero di Mojo, delle ricerche inconsulte alle due di notte su Discogs o su oscuri blog per specialisti e iniziati, per lo più d’oltremanica, fatti a loro volta di lunghissime liste ed elenchi. Sono malattie croniche, anzi cicliche, che si manifestano ad intervalli abbastanza regolari, in forma di fiammate veloci che riempiono il cuore di sangue burrascoso e che, con inesorabilità direttamente proporzionale, svuotano il portafogli di chi ne è vittima, come il sottoscritto. Se conoscete qualche valido professionista, sentitevi liberi di farvi avanti, siete i benvenuti.
Stavolta, come ben sanno i miei amici di penna e soprattutto di musica Francesco e Matteo, (coi quali peraltro mi scuso per il non richiesto coinvolgimento nelle suddette scorribande), la mia nuova audiomania riguarda una certa musica inglese creata a cavallo fra il 1984 e il 1986 per lo più a Liverpool ma ovviamente non solo. Pale Fountains e Lotus Eaters, certo, ma anche Lloyd Cole, Blue Nile, Aztec Camera, Orange Juice, Prefab Sprout, Style Council, Everything But the Girl, sino a cose più esoteriche, quasi massoniche, come Candy Opera, Railway Children, The Room, It’s Immaterial, Friends Again. Rispetto alle quali non posso sperare di dire parole più perfette di quelle dello scrittore Ivan Carozzi, “Alla metà degli anni Ottanta in UK accade un miracolo pop, estetico-musicale, ma oserei dire anche cognitivo e morale: una musica senza incubi, calda, senza spigoli o rasoiate, senza synth freddi, senza ossessioni per l’«oscuro», senza paure per la bomba atomica, sentimentale e pop-rock in un modo assolutamente prezioso e originale, un linguaggio che ambisce all’eleganza, alla sartorialità, alla pop perfection e alla classicità, altro e reattivo rispetto a ciò che stava uscendo o era uscito in quegli anni, quindi anche questa una scheggia dell’universo in espansione del post-punk, sebbene la scheggia vada a cadere in territori lontanissimi dal punto della detonazione.”
Già da qualche anno ci ritroviamo del resto a vivere, per un paradosso temporale a tratti affascinante, nel pieno di un “ricorso” (in senso vichiano) post-punk, che va di pari passo, in modo abbastanza inquietante, con annessi e rinnovati timori nucleari, cortine di ferro, austerità economiche, embarghi, pogrom e prove generali di massacro da una parte all’altra del mondo. Non pare dunque del tutto immotivata la tendenza, in me sempre più insistente, a cercare nella musica forme lenitive d’armonia e di rotonda pacificazione, che sappiano sganciarmi dalla miseria del dato contingente, dal tedio dei conflitti e dalle contraddizioni insanabili che ben presto si tramutano in sottile paura del futuro. Sempre più spesso mi basta metter su …From Across The Kitchen Table (1985) per ritrovare quel senso di, ehm, “grazia di Dio” che il tempo presente solo con estrema difficoltà sa ormai restituire alla mia anima.
In qualche modo anche la svolta “morbida”, quasi onirica, del nuovo EP de L’Objectif (basti la già nota Lily of The Valley, peraltro bellissima) mi induce a pensare che un sentimento “che ambisce all’eleganza, alla sartorialità, alla pop perfection e alla classicità, altro e reattivo”, si sia impadronito del giovane quartetto di Leeds che già avevamo elogiato per i due precedenti ep digitali usciti fra 2021 e 2022. Delle sette nuove canzoni (che fanno quasi un album) il cantante Saul Kane dice, “It’s the closest we have been to knowing what picture we want to paint. It’s another window into the musical space we wish to explore, yet I think we’re closer to having our sound. I think the project signifies the end of a section in our lives, moving out from the haze of the moment and reflecting on our teenage years and all its chaos with more understanding.”
The Left Side rappresenta un ulteriore passo avanti nella definizione di un suono che va crescendo assieme alla band, di canzone in canzone, come scrivendosi sulle pagine di un diario sonoro offerto allo sguardo e alle orecchie del pubblico. The Dance You Sell in questo senso, nel suo dibattersi volutamente irrisolto fra sintesi e caos, ben racconta un trapasso d’età che lascia tracce anche nella trama formale, nel lessico, nella scrittura di una band vivacemente “in formazione”. E se la ricchezza strumentale di ITSA quasi rievoca i Deerhunter -aiuta in cabina di regia Ali Chant, già apprezzato con i concittadini Yard Act e poi con Murder Capital e Dry Cleaning, fra gli altri-, nelle ballad più sentimentali sono forse i migliori Bloc Party a brillare fra le righe (la meravigliosa epifania emo-cosmica di What A Time to Believe e l’altrettanto riuscita Conman).
Fosse uscito nel 1984, The Left Side non avrebbe faticato troppo a guadagnarsi un suo spazio fra riverberi post-punk e nuove, mobilissime, luminescenze art-pop. Per fortuna però questo piccolo album ci arriva oggi, nel 2024, e la luce che emana su di noi è forse ancora più forte e necessaria.