The Libertines – All Quiet On The Eastern Esplanade

Tiziano: A oltre vent’anni di distanza dall’esordio e a quasi dieci dal ritorno del 2015 i Libertines, trovatori erranti sempre in fuga dalla perfida Albione, tornano un nuovo disco. Amico mio, più volte io e te abbiamo parlato dell’influenza della band sulle nostre passate giovinezze, su queste pagine e non solo. Ricordo, a proposito, che all’annuncio del precedente Anthems for Doomed Youth eravamo insieme, in stivali di gomma di Decathlon nel piovoso Galles. Nei giorni successivi notammo nei supermercati le scatole Yorkshire Tea dedicate ai nostri eroi, ma da pavidi tirchi quali siamo, non ne comprammo nemmeno una. Oggi, più anziano di un decennio, ti chiedo: ma non avremmo fatto bene a prenderne almeno una? Quando mai ti sei trovato di fronte a una così sofisticata idea di merchandising? Di conseguenza, te la compreresti la maglia del Margate FC con lo sponsor della band? (Io sì). Ma soprattutto, comprerai questo nuovo disco? Ti è piaciuto?

Francesco: Pensavo avessi comprato quelle bustine! Non averlo fatto fu senz’altro un’imperdonabile leggerezza, legata probabilmente alla circostanza che in quel 2015 non potevamo ancora sapere di trovarci al crepuscolo di un’epoca destinata a sconfinare ben presto nel mito, almeno per noi che l’avevamo vissuta.

Mentre, come sai, in fatto di magliette calcistiche non serve domandarmi a chi vadano le mie simpatie, oggi e sempre, ti rispondo che sì, questo nuovo All Quiet on The Eastern Esplanade (titolo che fa beffardamente il verso al romanzo bellico di Remarque ma che cita anche l’indirizzo dell’Albion Rooms, il fantomatico albergo-studio dei Nostri a Margate): mi è piaciuto più di quanto sinceramente potessi aspettarmi. Reputavo la storia dei Libertines chiusa in gloria con Anthems for Doomed Youth e avevo imparato a farmi bastare, senza troppa fatica, i dischi corsari di Doherty con Puta Madres e Frederic Lo (magari l’accontentarsi nella vita consistesse sempre in simili lussi). Ho con ogni evidenza sottovalutato il benefico influsso delle recenti passioni eno-gastronomiche (e in particolare casearie) coltivate dal menestrello britannico, da qualche tempo peraltro felicemente accasatosi in Francia, al di qua della Manica, con famiglia e cani al seguito.

Ti dico questo perchè All Quiet on The Eastern Esplanade si rivela non solo un album 100% Libertines ma anche e soprattutto un grande album, dall’inizio alla fine. Ok…ok, sento già striduli ululati alzarsi dalle tribune degli esperti: qualche piccolo calo sparso nella scaletta, ad esser pignoli, c’è, ma davvero si tratta di minuzie che aggiungono bellezza e sostanza artigianale al lavoro, come vorrei mi spiegassi.

Tiziano: Anche io pensavo avrebbero chiuso col disco precedente e invece ci hanno sorpresi. È vero, nella scaletta qualche falla c’é: tutti i momenti in cui si tenta di riproporre i quattro quarti tirati degli esordi, senza però quel senso di disordine traballante (ti rubo una definizione) che aveva, inaspettatamente, conquistato noi e migliaia di altri adolescenti. Puntare ai ricordi, a mio giudizio, è in questo caso una scelta decisamente sbagliata. A rendere gloriosi quei pezzi erano l’entusiasmo cocainomane dei vent’anni, ormai impraticabile, e quel lerciume di chitarre che a sentirle oggi sembrano arrivare da un passato lontanissimo. Non solo per una questione di mode, ma per l’ormai assodata abitudine a determinati standard sonori. Un po’ lo stesso discorso dei modelli di bellezza fisica: per quanto si finga l’inclusività promuovendo canoni “alternativi”, ci sarà sempre il requisito, più subdolo, della fotogenicità e della potenziale fruibilità dell’immagine sulle vari piattaforme. Un po’ come la saturazione dei colori da produzione Netflix, che rende i film tutti un po’ simili, col risultato che non appena vedi un prodotto differente lo percepisci d’istinto come “impresentabile”. Qualcosa di simile è accaduto anche alle produzioni musicali, nonostante le scelte in sede di registrazione e di missaggio siano praticamente infinite. Personalmente, non riesco a sopportare l’idea di canzoni rock in cui ogni singolo strumento sia inequivocabilmente distinguibile. Non è una questione di principio, sia chiaro, è che proprio non prende sul piano emotivo. Credo che, almeno nella maggior parte dei casi, per agire su un registro euforico sia necessario essere giovani, possibilmente esserlo prima dell’epoca in cui i suoni vengono calibrati per uscire da uno smartphone, ma soprattutto avere una scena di “simili” intorno con cui confrontarsi.

Il bello di questo nuovo disco risiede insomma altrove: nella qualità delle invenzioni melodiche, che proseguono sulla linea umorale tracciata col precedente Anthems for Doomed Youth. È onnipresente, tra le righe, una nuova attitudine groovy, lontana da sound degli esordi e in fin dei conti quasi reggae (in senso joestrummeriano). Se in Gunga Din era evidente, in Merry Old England è più subdola ma lo spirito è lo stesso e funziona benissimo. Bellissimo videoclip a proposito. Merry Old England, a mio parere, insieme a Shiver, è il miglior pezzo del disco. Tu che ne dici? Ma soprattutto, che cosa ne pensi di questi palesi, infiniti, riferimenti alla Gran Bretagna contemporanea?

Francesco: Concordo pienamente sulla grandezza di Merry Old England, che pare quasi appoggiarsi sulla medesima melodia di The Butterfly Collector dei Jam e che, aggiungo pure, non sfigurerebbe, tutt’altro, in un album tra i più recenti dei Blur, nel suo cantare, senza un filo di odioso paternalismo, le contemporanee traversie di Siriani, Iracheni e Ucraini approdati in terra d’Albione (sintetizzabili nel beffardo distico: “My congrats on staying alive/ Hope they don’t catch you tonight”).
Ti invito peraltro, restando in ambito letterario, a cogliere la straordinaria eleganza del passaggio: “Oh, how you finding merry old England/ With her chalk cliffs, once white/ They’re greying in the sodium light”, capace di racchiudere in una singola e indimenticabile, nonché velocissima, immagine chilometri e chilometri di sottilissime analisi sociopolitiche. Come del resto sempre dovrebbero fare le buone canzoni o almeno quelle che sanno annusare, anzi respirare, l’aria del tempo, per così dire.
Per il resto credo anch’io che, ad eccezione della tenera Be Young (quasi un outtake di Up The Bracket e compendio portatile di minima arte libertina), All Quiet On The Eastern Esplanade sveli le sue principali virtù negli episodi maggiormente votati alla narrazione. Ad esempio nella toccante storia di coltelli e ragazzi di vita di Night of The Hunter, in bilico fra murder ballad e play shakespeariano, o nella sinuose movenze di Shiver che, oltre a ricordarci ancora una volta che cos’è, oggi come ieri, una bella canzone, saluta con un brivido la “cortigiana gigantesca dalla piccole mani” ovvero la regina Elisabetta. D’altra parte i Libertines sono da sempre poeti del crepuscolo, bardi ubriachi che cantano a voce più alta nell’ultimo giorno degli Imperi, quando lo “stendardo sgualcito” tocca terra e irrimediabilmente si imbratta di fango, lacrime e sangue.
Pur tuttavia, in Run Run Run la voce di Barat ci ammonisce: “You’d better run, run, run boy/ Faster than the past/(..)/If you want the night to last.” Bisogna correre, correre, correre, con piede più lesto del passato e i Libertines ci riescono eccome, non cadono nella trappola della nostalgia idealizzante (e dunque nel manierismo, malattia infantile del postmodernismo) e anzi continuano a scappare più veloci delle loro ombre.

Tiziano: Stavo per dirlo! Quel passaggio in Merry Old England (“they’re greying in the sodium light”) è l’apice del disco! Volevo infatti farti riflettere su quanto il parlare del proprio paese richieda sempre una specifica abilità poetica che è una sorta di delicatezza di tocco. Pensala così: come vivresti un album interamente costruito su rimandi al tricolore, ai Savoia, o al passato e presente nazionale? Anni fa ci provarono gli Afterhours, sommessamente, ma i risultati mi parvero goffi. Penso altrimenti a quel periodo di collaborazioni tra note band alternative italiane a cavallo tra Primo Maggio e reti televisive via cavo. Era oggettivamente tutto molto imbarazzante. Il mondo anglofono ha invece sviluppato delle abilità a riguardo. Più in Gran Bretagna che negli Stati Uniti (perché lì il rischio di essere ottusamente celebrativi è sempre dietro l’angolo). Purtroppo o per fortuna esiste cioè un velo poetico che da sempre permette ai britannici di poter parlare dell’impero coloniale britannico mantenendosi “puliti” all’orecchio di chi ascolta. Per me è notevole.
Hai capito cosa intendo? Non so dirlo meglio…

Francesco. Certo, i Libertines, come già gli Smiths prima di loro (“England is mine, it owes me a living”), riescono nel miracolo di non pietrificarsi nel nazionalismo imbandierato e farlocco, facendo della loro inglesità più una condizione poetica universale – un gergo fantastico o anche uno sguardo se vuoi – che non una semplice appartenenza a luoghi e culture specifiche.
Sarà per questo che a me pare che sui volti dei quattro Britannici rifulga ormai la luce del classico, ovvero la bellezza di ciò che rimarrà, anche dopo di loro (e di noi).

2 pensieri su “The Libertines – All Quiet On The Eastern Esplanade

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