Francesco Giordani e Tiziano Casola (con Cassandre) per TRISTE©
Francesco: C’è stato un momento, breve ma intenso come si suol dire, nel quale la musica “indie” (ovvero, in senso molto lato, non “mainstream”) era per noi (ormai ex) giovani più o meno ciò che i vari Instagram e Tiktok sono per i giovani di oggi. Ovvero, detto in modo assai rudimentale, un sistema simbolico per autorappresentarsi e costruire attivamente un proprio mito biografico, un’identità pubblica da offrire e condividere con gli altri, all’interno di una serie di contesti deputati allo scopo, all’epoca ancora abbastanza fisici (scuole, università, librerie, pub, sale da concerto).
Al posto del viscoso armamentario egolatrico di emoji, jingle, selfie e filtri cosmetici vari che oggi imperversano nei nostri display, si utilizzavano però, quasi fossero avatar o carte di Magic, le nostre band predilette, le loro canzoni, le loro parole, persino il loro guardaroba.
Ci si rispecchiava, un po’ esoticamente, in “altro” e nell’altro si imparava a scoprire sé stessi. Questo fenomeno, per quel che ricordo, caratterizzò anche il primissimo periodo di Facebook e, a onor del vero, sopravvive ancor oggi per taluni, pur essendo decisamente meno rilevante. Come meno rilevante, pressoché azzerato, è il peso che le band esercitano nella costruzione dell’identità pubblica dei giovani.
Ho ripensato a questo buttando le orecchie nel nuovo album di Pete Doherty, che fu certamente uno dei nostri feticci giovanili e del quale vorrei parlare un po’ con te.
Tiziano: Assolutamente, parliamone.
La musica di Doherty avrà sempre un posto speciale nel mio cuore, in quanto rientra tra quei pochi rockers la cui produzione ha su di me un effetto sempre positivo, gioiosamente rassicurante. Sarà perché mi rimanda sempre alle mattinate sugli autobus ai tempi del liceo, con Up The Bracket e l’altro disco dei Libertines masterizzati nel lettore cd portatile… Specifico ‘masterizzati’, perché, che ci si creda o no, ancora all’epoca certe cose necessitavano di essere ordinate e spesso il negozio di dischi locale non si prestava. Forse nei capoluoghi di provincia era diverso, ma per noi provincialissimi funzionava così. Santo E-Mule.
A proposito, credo che una delle sue prime cose che mi colpì di Doherty e compagnia bella sia stato il videoclip di What became to the likely lads, visto ai tempi su Mtv Brand New, che mi dava l’impressione di essere girato nel quartiere Toscanini di Aprilia.
Ho fatto questa breve digressione per arrivare a un punto: il Pete Doherty di oggi si ispira ormai a un mondo diverso da quello delle nostre province malandate. Si sente insomma, dai nuovi dischi, che ormai Pete è un abitante di una certa campagna francese, non trovi? Già la vena folk del precedente disco coi The Puta Madres lo diceva chiaro e tondo…
F. Sì, Doherty, (che vanta una nonna russo/francese, leggo su Wikipedia), in Francia ci vive, credo in Normandia, lì si è sposato, di cultura francese si è sempre nutrito (oltre agli ovvi De Sade, Rimbaud, Baudelaire, Genet, ricordiamo la sua interpretazione cinematografica al fianco di Charlotte Gainsbourg nelle Confessioni di un figlio del Secolo, da Alfred De Musset) e ora, con un Francese, ha anche fatto un disco.
Si chiama Frédéric Lo e, a quanto si apprende, ha composto tutte le canzoni dell’album The Fantasy Life of Poetry & Crime (titolo super-dohertiano), delle quali Doherty ha poi scritto e cantato le parole. Secondo te questa progressiva francesizzazione dell’ultimo dei Londinesi a cosa è dovuta?
T. Credo sia dovuto al fatto che Doherty è chiaramente uno di quegli inglesi che si sentono più vicini all’Europa che all’America, anche musicalmente. Il suono dei Libertines se ci pensi doveva molto a un certo immaginario da ballerine di can can a Parigi. L’associazione tra Pete Doherty e il Continente per me è sempre stata chiara.
Credo di averti detto già più volte che da sempre associo la produzione di Libertines, Babyshambles e compagnia a quelle gite scolastiche che si facevano all’estero.
Ad esempio noi in quarta andammo a Barcellona, eravamo felici e in un perenne clima di ebrezza da giovinetti in viaggio.
La voce di Doherty mi fa pensare proprio a quei giorni felici, non solo perché all’epoca si sentivano quei dischi lì, ma perché lo spirito era lo stesso. La gioia del turista in brasserie a Parigi, sulle ramblas a Barcellona o a Piazza di Spagna, I voli low cost hanno fatto l’Europa, si potrebbe dire. Scherzi a parte, la fascinazione per la Francia è da sempre tipica di alcune fette di inglesi sensibili. Come i pittori che nell’Ottocento volevano un’arte statale sul modello napoleonico, oppure come quel personaggio di Jonathan Coe che, in Middle England, si sposta in Francia dopo la Brexit.
Tra l’altro proprio in Francia, vicino la Manica, vidi uno splendido concerto di Doherty. Mi sembrava a suo agio, si era fatto dare delle tute da meccanico in un’officina vicino al festival. Detto ciò, sì, il titolo di questo nuovo album è splendido, The Fantasy Life of Poetry & Crime. A te a cosa fa pensare? Vediamo se hai la mia stessa idea…
F. Be’ mi fa pensare alle gang di Morrissey, ovviamente, e, per associazione, ai romanzi-poemi di Aurelio Picca, il Morrissey dei Castelli Romani (i lettori che non hanno a casa almeno una copia di Arsenale di Roma Distrutta se la procurino oggi stesso nella più vicina libreria!). Del resto l’europeismo del Doherty maturo è testimoniato anche da una canzone splendida come The Epidemiologist (una canzone di resistenza, peraltro: Oh yes, I search and I search/And I lurch, I lurch headlong into atrocity/With an exponential known only to very few epidemiologists), senza alcun dubbio il più bel pezzo scritto finora su una catastrofe che, al netto dei suoi esiti più tragici, ha almeno per un momento fatto sentire l’Europa unita come al tempo dei Franchi o di Napoleone, per restare in tema.
Del resto l’album è pieno di canzoni bellissime, in perfetto stile dohertiano (con poca elettricità ma va bene così), The Ballad Of, You Can’t Keep It From Me Forever (tra le sue migliori degli ultimi dieci anni), Rock’n’Roll Alchemy, la sorprendente Invictus. Doherty è davvero un gatto dalle molte vite: l’ultima volta che lo vedemmo, in quel periferico campetto della S.S. Lazio, spaurito e senza band, sembrava ormai un avanzo da karaoke e invece eccolo tornare con un album che ha la freschezza dell’eterno esordiente.
Peraltro anche i Libertines torneranno con un nuovo album, non è una grande notizia?
T. Non sapevo del disco dei Libertines e già sono in attesa! Per quanto riguarda il titolo non pensavo solo a Morrissey (un altro britannico amante dei territori più a sud), ma anche al fatto che Doherty si conferma un autore capace di fantasticare. Una caratteristica (azzarderei una dote) rarissima in tempi in cui si pretende dal pop la restituzione del mondo che li circonda, un certo “realismo” o, peggio, quella retorica da talent orribile della musica come rivincita.
Che poi se ci pensi era la retorica del nu metal e altra immondizia americana nei tardi anni Novanta, meno male che poi arrivarono proprio gli indie-rockers come Doherty a toglierla di mezzo e a far valere solo la qualità del songwriting!
Una cosa che poi ho amato di questo disco è la voce, che sostengo sia da sempre uno dei punti di forza di Pete, solo apparentemente sgarbata. Ho apprezzato anche la copertina, che come tante altre cose sue mantiene sempre un legame con un’estetica novecentesca, modernista (e non post umana come praticamente il resto del mondo delle produzioni creative, di cui l’abominio sanremese è solo il sintomo più evidente).
Sarà per questo che non posso evitare di sentirmi rassicurato da un disco simile, perché mantiene lo spirito di un tempo in cui si poteva immaginare un futuro. D’altronde è il motivo per cui tendiamo ad amare la roba anni 60, la nostalgia del futuro.
F. A questo punto, alla luce delle considerazioni sin qui svolte e promuovendo a pieni voti questo grande ritorno francese del Nostro, possiamo infine investirlo del titolo onorifico di ultimo cantore ufficiale d’Europa?
T. Per me il titolo ce lo aveva già, ma con questo disco possiamo ufficializzarlo, sì.
A questo punto una terza voce, con spiccato accento francese, interviene (Ndr)
Cassandre: Ragazzi non state inventando niente di nuovo, queste cose gli umanisti le fanno già da secoli! Un esempio noto è quello di Giorgio Vasari, che nel Cinquecento aveva composto un dialogo immaginario con Francesco de’ Medici per illustrare i dipinti di Palazzo Vecchio a Firenze (“Ragionamenti del Signor Giorgio Vasari Sopra le Invenzioni Da Lui Dipinte in Firenze nel Palazzo Vecchio“, 1567)
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