Arriva un momento nella vita di tutti, in cui il tempo accelera all’improvviso, in cui la vita, semplicemente, comincia a correre e travolgerci, un momento in cui svaniscono i lunghi pomeriggi pigri dell’estate, in cui le sere infinite, che si fondono nelle notti insonni, cominciano ad essere sempre più rare (e cariche di conseguenze negative), un momento che segna un passaggio irreversibile dall’adolescenza, che sembrava eterna, all’età adulta.
E quando quel momento arriva, quando gli impegni e le responsabilità ci travolgono e schiacciano, è inevitabile che il nostro spasmodico ascolto della musica ne risenta, almeno un po’.
Per ragioni anagrafiche, quindi, il mio personale rapporto con la musica della seconda parte degli anni ’90 è stato inevitabilmente diverso rispetto a quanto accadeva prima. Il tempo di ascoltare un album, farlo mio, conoscerne ogni piega e ogni nota, ripeterne i testi come un mantra è, dolorosamente, venuto meno e mi è risultato sempre più difficile innamorarmi perdutamente di un artista o di una band.
Così, mentre ricordo con precisione quando ho acquistato o ascoltato per la prima volta Psychocandy o Document, mentre recitavo i testi dei Cure o degli Smiths come (e meglio) del Padre Nostro, di tanti album dell’ultimo lustro dei ’90 mi è rimasta, per fortuna, la musica, ma ho grandi difficoltà a contestualizzarli nel fluire della mia vita.
Non ricordo affatto cosa stessi facendo tra la fine del 1997 e l’inizio dell’anno successivo. Ero, musicalmente, troppo preso dalla nascita del post rock, dalle ultime luci del Brit Pop, dal Lo-Fi sgangherato ed eccitante dei Pavement, dalla dolente bellezza delle canzoni di Elliott Smith (giusto per capire…), per rendermi conto che proprio alla fine dell’anno era uscito un album triste e importante, che segnava un punto di svolta nella carriera di un musicista che avevo fino ad allora seguito in maniera un po’ svogliata e intermittente.
Ho scoperto Red Apple Falls (probabilmente) intorno al 2001, quando l’etichetta inglese Domino decise di ripubblicare per l’Europa gli album di Bill Callahan, in arte Smog: mentre i lavori che lo avevano preceduto mi avevano incuriosito ma non convinto, avvolti come erano nel sibilo del nastro e nelle chitarre elettriche distorte, con la voce di Callahan sommersa di suoni e cacofonie varie, Red Apple Falls fu il primo (con il successivo The Doctor Came At Dawn) ad introdurre uno stato d’animo più tranquillo e pensoso, con arrangiamenti misurati che sottolineavano i testi di Callahan, cantati con voce profonda, malinconica e ironica.
Quasi d’improvviso (almeno per un fruitore poco attento come me) Callahan era passato dalle sperimentazioni lo-fi, un po’ fredde e fini a loro stesse a una creazione ricca, calda e coinvolgente, anche grazie alla magnifica produzione di un genio come Jim O’Rourke.
In Red Apple Falls il songwriting è straordinariamente brillante, corposo, maturo. C’è il country imbastardito di I Was A Stranger, con una dolce pedal steel guitar e un’ironia feroce, c’è To Be Of Use, soliloquio introspettivo e lugubre caratterizzato da un accompagnamento musicale spazioso, quasi sospeso o Ex-Con, un brano vicino all’indie-rock ma decisamente più complesso, che racconta di disagio sociale tramite metafore ardite e coraggiose, o, ancora, brani come la delicata conclusiva Finer Days, la straziante Red Apples, o quella Blood Red Bird che, nella sua immediatezza, è diventata uno dei classici del repertorio di Callahan.
Praticamente tutte le canzoni che compongono l’album possiedono lo spessore e la forza dei classici. Sono storie minime e potentissime, che con poche pennellate esplorano le più oscure profondità dell’animo umano, l’emarginazione, l’ansia, il dolore, e lo fanno con estrema sobrietà e austerità.
Ignorato all’epoca non solo da me, ma da tutto il pubblico europeo (e da quello inglese in particolare), Red Apple Falls, riascoltato a distanza di vent’anni dalla sua uscita, e con Bill Callahan oramai assurto ad autentica icona alternativa, rivendica una posizione chiave non solo nell’ambito del progetto Smog, ma nello sviluppo della musica folk americana tutta.
Non è mai troppo tardi per essere travolti da un capolavoro.