Hai presente quando torni a casa dopo il lavoro, dall’università o dopo la spesa e metti su le zucchine a trifolare, per correre in doccia e poterti finalmente stendere sul divano, inerme, mandando in play un disco?
Ecco, questo è quello che ho fatto io quando ho scoperto che era uscito l’ultimo di Solange, ingannata anche dal titolo: il mio cervello non si è messo in stand-by, né tanto meno il mio corpo, ma anzi, hanno avuto un guizzo vitale incredibile, e a tratti mi sono sorpresa a ballare sulle zucchine sfrigolanti.
Insomma, ci sono dei dischi che durano un’ora e mezza e non ti dicono niente, qui in 39 minuti ti ritrovi sbattuta un po’ in tanti luoghi, sentendoti sempre a casa. L’ascolto tuttavia non è facile: richiede un orecchio attento e “riprese a più tempi”.
Solange Knowles, 33 anni, è sorella di Beyoncé e anche se anagraficamente viene “dopo” di lei, con il suo Grammy come Best New Artist 2017 e con la sua evoluzione artistica si è staccata totalmente dall’ombra della sorella maggiore.
Quello che Solange ci fa fare, in questo disco, è un ritorno alle origini. Un viaggio attorno all’infanzia e l’adolescenza, con mamma che ti prepara il pranzo per scuola; insomma una piccola narrazione di un mondo, nel quartiere di Houston dov’è cresciuta la Knowles.
When I Get Home è il quarto lavoro dell’artista e porta l’ascoltatore tra sonorità Jazz, neo-soul ed R&B, in giro per New Orleans, Jamaica e Topanga Canyon in California, dove è stato appunto registrato l’album. Il 28 febbraio esce l’audio di Binz, co-prodotto da Panda Bear, due giorni dopo, all’inizio del Women’s History Month, la pubblicazione dell’album, seguito dal video del singolo, self-made, che la cantante gira con la telecamera che la inquadra mentre balla, fottendosene un po’.
Questo disco è davvero da ascoltare bene per poterne carpire tutte le influenze e le collaborazioni, che costituiscono la crescita evolutiva del lavoro della Knowles, traccia dopo traccia. Sampha, Pharell, Dev Hynes e Tyler The Creator sono alcuni dei nomi che costellano la volta celeste del mondo che ci propone Solange.
La prima canzone che apre l’album è Things I Imagined, 1’59” in cui l’artista ripete “i saw things i imagined” lascianod capire che i testi siano come i bastoncini dello Shanghai: l’uno sorregge l’altro e la loro esatta posizione è di estrema importanza. Di fatti i pezzi seguenti, (che comunque sono più o meno di breve durata) definiscono mano a mano la storia e il mood generale proprio grazie a questo incastro.
Il brano Almeda sancisce l’entrata di Playboi Carti nel disco e con i suoi 110 bpm esprime l’ambiente della cultura afroamericana “from the South”. La ciliegina comunque rimane My Skin My Logo, dove si ripropone un sound molto 90’s ma comunque attuale: se nel disco precedente A Seat at The Table, v’immergevate nel disagio e nella frustrazione dell’essere una donna, nera, oggi, When I Get Home è un inno, un racconto a più strati dell’orgoglio afroamericano, ad un livello estremamente sopraffino.
Quindi, lasciate da parte le zucchine per un momento, pianificatevi il giorno “off” e mettete le cuffie. Questo disco è sì, come casa, ma non è la vostra; ambientatevi per prima cosa, o almeno, prima, cercate di capire dove si trova la cucina.
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