Francesco Amoroso per TRISTE©
Forse il mio piatto preferito in assoluto è la pasta con il sugo semplice che mi faceva mia nonna. L’avrei potuto mangiare a pranzo e a cena e, probabilmente, anche a colazione e merenda.
Da quando mia nonna non c’è più, ho provato in tutti i modi a rifare il sugo di pomodoro come me lo preparava lei e, seppure non ci sia andato neanche lontanamente vicino, la pasta al sugo, quando ben fatta, continua a essere il mio piatto preferito. Sono una persona semplice, dai gusti semplici e senza pretese, lo so.
Tuttavia, alla lunga, anche il tuo piatto preferito ti può venire a noia, soprattutto quando viene preparato senza impegno e attenzione e ti viene propinato continuamente.
E’ un po’ quello che mi è accaduto con il cantautorato folk al maschile: per anni è stato il mio pane quotidiano e ho amato scoprire quasi quotidianamente artisti che interpretavano il genere con passione e talento.
A poco a poco, però, ho cominciato a notare una certa stanchezza sia da parte mia come ascoltatore, sia da parte di chi, autore, si adagiava su schemi obsoleti e triti senza neanche avere la capacità di scrittura necessaria per incuriosirmi e appassionarmi.
Dopo un lungo periodo di stanca, allora, è una specie di miracolo ascoltare un lavoro come “Moonbug”, il secondo album di Kele Goodwin, cantautore proveniente dall’Alaska, ma da tempo stabilitosi in quella Portland, Oregon, che per anni è sembrata un’inesauribile fucina di talenti folk.
Probabilmente in pochissimi ricorderanno questo nome, ma Goodwin, nel 2010, aveva esordito con un album dalla bellezza e dalla semplicità disarmanti. Si chiamava “Hymns” ed era un lavoro pieno di canzoni straordinarie e austere, essenziali e sobrie, eppure dal fascino tranquillo e disarmante nella vena (e con un inflessione vocale a volte incredibilmente simile) di Nick Drake.
Sembrava che quel disco, sospeso in una dimensione temporale altra, fosse destinato a rimanere un evento eccezionale.
La sobrietà dell’esposizione di Goodwin, il suo songwriting spontaneo e senza affettazioni, il suo cantato asciutto, classico e personale sarebbero rimasti sepolti in una recondita parte del mio cuore, pressoché dimenticati e travolti da strati su strati di altra musica e di altre parole, se, in maniera del tutto inaspettata (“out of the blue” direbbero gli anglosassoni con un’espressione che molto gli invidio), sul finire dell’estate gli amici dell’etichetta tedesca Oscarson, non avessero deciso non solo di ristampare in vinile “Hymns” -sperando che questa nuova edizione lo salvi dall’ingiusto oblio cui era relegato- ma di stampare, ancora su vinile, anche il secondo lavoro di Goodwin, “Moonbuig” appunto, uscito solo in forma digitale due anni fa e passato del tutto sotto silenzio.
La prima cosa che sorprende, ascoltando questa raccolta di nove canzoni, registrate con la produzione e il supporto di Ben Nugent (Dolorean, Grails), è quanto il timbro vocale di Kele sia maturato: seppure le influenze drakeiane siano ancora presenti, il cantato è più caldo, profondo e personale. Goodwin, acquistato coraggio e consapevolezza dei propri mezzi, si è oramai del tutto affrancato dai suoi (nobilissimi) riferimenti.
“Moonbug”, pur rimanendo assolutamente fuori dal tempo (e, infatti, i due anni che ha già sul groppone non si sentono affatto) e lontano dalle mode, è, rispetto al suo predecessore, un lavoro molto più radicato territorialmente: è la tradizione folk d’oltreoceano quella a cui fanno riferimento i brani di Goodwin e questo è, indubbiamente, un disco di “Americana” nel senso migliore del termine.
La qualità eccelsa dell’album, tuttavia, sta soprattutto nel songwriting: che si tratti delle più pacate ballate con tanto di pedal steel guitar quali “Handrails”, “Tampico Rd” o “Moonbug”, o di brani più distesi e ariosi come la magnifica “Lilacs” (un brano che non potrà non rimanervi nella testa e nel cuore se amate il folk d’autore), “Godspeed”, “Protector” o “You Are Glass”, le composizioni dell’artista americano svettano sulla produzione folk contemporanea per eleganza, onesta, spontaneità e lirismo.
All’inizio di questa lunga (prolissa?) dissertazione ho parlato di miracolo e “Moonbug” lo compie: Kele Goodwin riesce, con le sue canzoni, a farmi godere nuovamente sonorità che avevano, col tempo, perso gran parte del loro fascino e della loro freschezza, che spesso non suonavano più spontanee e sentite.
Anche se sono consapevole che, così come mia nonna, Nick Drake non tornerà più, sono certo che fino a quando ci saranno cuochi come Goodwin, riassaporare certi sapori sarà sempre una delle più grandi gioie della mia esistenza.
(Oscarson version)
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