Andare oltre le parole per cogliere espressioni e dettagli che accompagnano la voce, rivelandone sfumature celate, ampliando il senso di quel che viene detto.
È un’attitudine che forse dovremmo sviluppare un po’ tutti per riuscire a capire meglio, per essere capaci di ascoltare in modo più profondo cercando indizi in quel paralinguaggio che tanto ha suggestionato Will Samson, tanto da sceglierlo come titolo del suo nuovo lavoro.
A distanza di un anno dall’evanescente flusso di A Baleia, che ne rivelava ancora una volta l’attitudine di atmosferico ricercatore di rarefatte frequenze sonore, il musicista inglese torna a pubblicare un disco di canzoni ampliando il suo percorso cantautorale da sempre in bilico tra armonie acustiche e filtraggi elettronici, componenti che in Paralanguage si compenetrano trovando un nuovo prezioso equilibrio.
Sulla superficie di ibride scie ambientali, impreziosite dai variegati contributi affidati ad un nutrito gruppo di artisti tra cui emerge come unica costante la violinista Beatrijs De Klerck, la voce di Samson scivola eterea e soffusa a narrare sensazioni e umori estrapolati dalla sua esperienza di vita su cui ancora aleggia vivo il dolore per la prematura perdita del padre. È un canto placido e dolente, dall’incedere narcolettico e a tratti non a caso morbidamente allucinato, assente solo nel malinconico frammento Lacuna e nel successivo ammaliante oceano emozionale di The Human Mosaic dominato dalla voce struggente del violino, apice di un intimistico percorso costellato di calde risonanze e soffusi riverberi.
Un universo interiore colmo di vivide cromie e delicate sfumature.