Francesco Amoroso per TRISTE©
E’ un cliché comunemente accettato che per parlare di argomenti scottanti, attuali o profondi attraverso la musica si devono necessariamente usare linguaggi e sonorità che prendano le distanze dal pop (con tutti i suoi suffissi e prefissi).
Eppure basterebbe guardarsi un po’ in giro per vedere che da sempre il pop è stato il veicolo ideale per affrontare qualsiasi questione o problema, per quanto spinoso o scabroso esso fosse.
Se il pop indipendente (il cosiddetto, spesso a sproposito, indiepop) è spesso stato considerato di retroguardia per ciò che riguarda l’analisi sociale e antropologica, è solo per la cattiva predisposizione dell’ascoltatore: basterà pensare a band come Housemartins e McCarthy o all’attitudine di un’etichetta come la Sarah Records per comprendere come non sempre siano necessari proclami incendiari e suoni lancinanti per dire la propria e non fare musica che sia un semplice passatempo o un inutile orpello.
Anzi, a volte, la fruibilità delle “canzonette” permette di veicolare storie e messaggi che farebbero altrimenti fatica a arrivare a un vasto pubblico.
Ne è un esempio perfetto il secondo lavoro degli RVG, band di Melbourne capitanata dalla cantante, compositrice e chitarrista trans Romy Vager (Romy Vager Group, appunto).
“Feral”, dopo il grintoso debutto di tre anni fa, “A Quality Of Mercy”, è un’opera che permette agli australiani di fare un incredibile salto di qualità e che, pur mantenendo a tratti le caratteristiche garage e punk che ne avevano caratterizzato gli esordi, li colloca definitivamente e con pieno merito nel Gotha del jangle pop australiano che ha come suoi massimi esponenti band come The Go Betweens, The Chills e, molto più recentemente, The Goon Sax.
Romy Vager, tuttavia, non si accontenta di scrivere le proprie canzoni raccontando di problemi di cuore e crisi adolescenziali: abbraccia, invece, la visione della vita degli emarginati e degli esclusi, raccontando storie disturbanti di violenza e rifiuto e lo fa con melodie incredibilmente incisive e ritornelli immediati, rendendo, così, le proprie istanze ancora più graffianti, dirette ed efficaci.
Non c’è un solo brano che non rimanga subito impresso, anche grazie alla produzione di Victor Van Vugt (già con Nick Cave e PJ Harvey) che, ricreando in studio il suono live della band, riesce ad esaltare le incredibili doti di Vager, songwriter sfacciata e brillante.
I numi tutelari The Go Betweens sono spesso evocati, sia per le chitarre jangly e per gli scintillanti, per quanto scabri, arrangiamenti che richiamano le produzioni degli eighties, che per il modo cantare, grezzo e profondamente emotivo, di Vager.
Melodie e ritornelli, però, per quanto sopraffini, non dovrebbero, appunto, far passare in secondo piano un altro dei punti di forza del songwriting degli RVG: la qualità dei testi di Romy che, con estrema noncuranza, riescono a saltare dal bozzetto esilarante e grottesco di “Christian Neurosourgeon” (“All of my friends, they laugh at me and they mutter, ‘Have you found the cross in the medulla oblongata?“) al pugno nello stomaco dell’iniziale “Alexandra” che, in maniera quasi rilassata, racconta la terrificante realtà con cui deve quotidianamente avere a che fare una persona trans in una società ignorante, feroce e spietata (“Come Monday Morning, you may find me dead/ You will say you saw it coming, it was only a matter of time/ The way you dressed, you must have really wanted to die/ They set fire to people like you/ Just for looking them in the eye“).
Così come ogni parola, anche ogni singolo suono risulta al posto giusto al momento giusto: le chitarre di “Help Somebody”, il post punk di “Asteroid”, le note amaramente languide di “I Used To Love You”, le sciabolate di “Prima Donna”, il jingle jangle di “Perfect Day” che sembra quasi una canzone degli Smiths (se gli Smiths fossero venuti dall’Australia), lo struggente incedere di “Photograph”, fanno di “Feral”, con le sue influenze variegate, dal garage, al post punk, un album moderno e freschissimo appropriatamente agghindato con un elegante abito retrò.
Ci troviamo, insomma, di fronte a un’opera che, ne sono certo, potrà sbalordire e avvincere chiunque gli conceda la giusta attenzione e alla conferma che, ancora una volta, non è necessario strepitare per farsi sentire e per dire qualcosa di importante.
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