Le firme di TRISTE©: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2020

Francesco Amoroso  per TRISTE©

Non so davvero da dove cominciare.
Anche quest’anno, così come l’anno scorso e quelli precedenti, ho ascoltato tanta musica nuova (circa un migliaio tra album ed E.P.) e molti sono stati, anche stavolta, i lavori che ho apprezzato.
Ma quando si giunge al dunque continuo ad avere la consueta difficoltà a stilare una classifica di merito, a catalogare i miei ascolti, ad assegnare una palma a questo o quell’artista. E’, per me, quasi contro natura (lo è diventato col tempo: una volta era una specie di compulsione alla “Alta Fedeltà”) dover mettere in ordine e assegnare una posizione a un’opera d’arte e, soprattutto, alle emozioni che mi ha saputo trasmettere.

Eppure trovo piacevole, stimolante e anche utile leggere le opinioni e le “classifiche” altrui.
Così, nell’illusione che anche altri possano provare le stesse sensazioni leggendo il mio “riepilogo di fine anno”, mi imbarco anche per quest’anno nell’impresa.
Avrei voluto risparmiarvi, almeno stavolta, le consuete elucubrazioni, ma leggendo qui e là le classifiche di fine anno di alcuni blog e riviste di riferimento (consiglio assolutamente quelle di For The Rabbits e di Gold Flake Paint) ho scoperto di non aver ascoltato tanti album degni di attenzione e questo mi ha fatto venire in mente alcune banali considerazioni: 1) le “classifiche” sono sempre più parziali e poco indicative; 2) per seguire tutto ciò che varrebbe la pena di seguire non basta una vita, figuriamoci un anno; 3) sto perdendo colpi (ma questo forse lo sapevo già).

Alcune avvertenze: 1) naturalmente in questo lungo elenco ci sono solo album legati alle scene che prediligo e che conosco meglio, quindi non c’è da stupirsi se mancano album osannatissimi ma che, probabilmente, non mi sono neanche preso la briga di sentire; 2) se un album osannatissimo di un genere che seguo con passione non è in elenco vuol proprio dire che non mi ha colpito per niente (vero Phoebe…?).
Avvertenze “tecniche” : cliccando il nome dell’album sarete portati alla recensione (se già presente su Triste) o alla sezione dell’articolo nella quale è presente una (più breve) recensione, mentre per ascoltare gli album ho privilegiato bandcamp (e l’odiato Spotify solo se necessario).

Buon viaggio.

I VENTI PIU’ AMATI DEL 2020

Cabane – Grande Est La Maison

Revolutionary Army of the Infant Jesus – Songs of Yearning

The Reds, Pinks and Purples – You Might Be Happy Someday

Mt. Doubt – Doubtlands

Adrianne Lenker – songs (and instrumentals)

Laura Marling – Songs For Our Daughter

Isobel Campbell – There Is No Other…

Stuart Moxham & Louis Philippe – The Devil Laughs

Epic45 – Cropping The Aftermath

Dana Gavanski – Yesterday Is Gone

Montevale – Figure And Ground

Douglas Dare – Milkteeth

The innocence Mission – See You Tomorrow

The Last Dinosaur – Wholeness

Bill Callahan – Gold Record

Andrew Wasylyk – Fugitive Light and Themes of Consolation

This Is The Kit – Off Off On

Jarv Is… – Beyond The Pale

Sufjan Stevens – The Ascension

Luka Kuplowsky – Stardust

Gli Altri Ottanta

Fontaines D.C. – A Hero’s Death

Ben Seretan – Youth Pastoral

Grimm Grimm – Ginormous

Porridge Radio – Every Bad

Keeley Forsyth – Debris (& Photograph)

Alabasted dePlume – To Cy & Lee: Instrumentals Vol.1

Plantman – Days Of The Rocks

King Hannah – Tell Me Your Mind and I’ll Tell You Mine

André Salvador and the Von Kings – André Salvador and the Von Kings

The Pistachio Kid – Sweet Remedies

RVG – Feral

Sweet Whirl – How Much Works

Bdrmm – Bedroom

Jessica – The Space Between

Andy Shauf – The Neon Skyline

Epic45 – We Were Never Here

Nadia Reid – Out Of My Province

Ben Eisenberger – Soloist

Dakota Suite & Quentin Sirjacq – The Indestructibility of the Already Felled

Gary Olson – Gary Olson

Tunng – Tunng Presents​.​.​.​DEAD CLUB

The Very Most – Needs Help

Big Eyes Family – The Disappointed Chair

Louis Philippe & The Night Mail – Thunderclouds

Kinbote – Shifting Distance

Logan Farmer – Still No Mother

Lorna – Constellation

Philip Parfitt – Mental Home Recording

Zola Mennenöh – Longing for Belonging

Shabason, Krgovich & Harris – Philadelphia

Smokescreens – A Strange Dream

Throwing Muses – Sun Racket

Talitha Ferri – Get Well Soon

Christian Lee Hutson – Beginners

Mr. Alec Bowman – I Use To Be Sad & Then I Forgot

Aoife Nessa Francis – Land Of No Junction

Snails – Hard-Wired

Sam Burton – I Can Go With You

Lisa/Liza – Shelter Of A Song

Fleet Foxes – Shore

Modern Studies – The Weight Of The Sun

Idles – Ultra Mono

Loma – Don’t Shy Away

Honey Harper – Starmaker

The Luxembourg Signal – The Long Now

Owen – The Avalanche

DG Solaris – Spirit Glow

Okay Kaya – Watch This Liquid Pour Itself

Grawl!x – Peeps

A Girl Called Eddy – Been Around

Natalie Jane Hill – Azalea

Rolling Blackouts Coastal Fever – Sideways To New Italy

Angel Olsen – Whole New Mess

Jetstream Pony – Jetstream Pony

Tan Cologne – Cave Vaults On The Moon In New Mexico

Alex Chilltown – Eulogies

Keaton Henson – Monument

Damien Jurado – What’s New, Tomboy?

Close Lobsters – Post Neo Anti: Arte Povera in the Forest of Symbols

Alex Rex – Andromeda

Dead Famous People – Harry

Lanterns On The Lake – Spook The Herd

Squirrel Flower – I Was Born Swimming

Choir Boy – Gathering Swans

Tim Burgess – I Love The New Sky

Bonny Light Horseman – Bonnie Light Horseman

Baxter Dury – The Night Chancers

Warm Morning Brothers – Not Scared Anymore

Perfume Genius – Set My Heart on Fire Immediately

Moons – Thinking Out Loud

Jason Molina – Eight Gates

Torres – Silver Tongue

Decoration Day – Makeshift Future

Thibault – Or Not Thibault

Helena Deland – Someone New

Nat Vazer – Is This Offensive And Loud?

Laura Fell – Safe From Me

Hjalte Ross – Waves Of Haste

Kevin Morby – Sundowner

Ned Roberts – Dream Sweetheart


Avevo pensato di non parlare di e.p. (anche perché chi le leggerà mai 100 recensioni?) ma ce n’è uno che ho troppo amato per non segnalarlo almeno: si tratta di “I Can’t Wake You/Altona” dei Constant Follower che, nella versione fisica (purtroppo già sold out da tempo) aggiunge anche i due meravigliosi (e non è una parola usata a caso) singoli precedenti. L’anno prossimo la band debutterà con un album prodotto da Kramer (vi dicono qualcosa i Galaxie 500?) e so già che sarà uno dei miei album del 2021.


Montevale – Figure and Ground
Montevale è il duo composto dal filosofo e compositore Thomas Sattig e dalla cantante Ahlie Schaubel. “Figure and Ground” è il loro secondo album, composto da sette brani che si muovono tra atmosfere intime, melodie schive e arrangiamenti elegantissimi e misurati. Un album attentissimo alla composizione, ma che fa dell’interpretazione piena di trasporto dei due musicisti e cantanti e della continua ricerca sonora il proprio punto di forza. L’intensità espressiva della proposta musicale dei due tedeschi è unica e personale, eppure presenta analogie e affinità soprattutto di sensibilità emotiva e di atmosfera, con nomi immensi quali i Talk Talk, i Cocteau Twins o i Bark Psychosis. Un lavoro all’apparenza semplice, tuttavia ricchissimo di sfumature che vanno dall’avanguardia al jazz, ma, soprattutto, un album pieno di magnifiche canzoni e di cuore. 

Dana Gavanski – Yesterday Is Gone
Il suo mini album del 2017, “Spring Demos”, aveva già evidenziato il talento, grezzo e cristallino, della serbo-canadese. Eppure, paragonando “Yesterday Is Gone” con quei primi vagiti musicali, si stenta a credere che si tratti della stessa artista. Sin da allora era evidente la capacità della Gavanski di distillare emozioni e di arrivare diritta al cuore con le sue composizioni scabre ed essenziali e con la sua voce vellutata e toccante, ma nelle dieci tracce che compongono “Yesterday Is Gone” emerge tutta la personalità di un’artista che è cresciuta così tanto da “imparare a dire ciò che sente e sentire ciò che dice”. Grazie alla fondamentale collaborazione di Mike Lindsay (produttore e musicista, fondatore dei Tunng), Dana ha elevato il proprio livello compositivo e reso la sua espressione vocale ancor più profonda e personale (anche con lo studio del canto tradizionale serbo). “One By One”, “Catch”, “Good Instead Of Bad”, “Yesterday Is Gone” sono canzoni folk pop (con un pizzico di psichedelia) nostalgiche e seducenti, arricchite da arrangiamenti elegantissimi e originali, che uniscono un talento melodico straordinario a interpretazioni capaci di avvincere, ammaliare e regalarmi un diluvio di emozioni.

The Last Dinosaur – Wholeness
The Last Dinosaur è il progetto dell’inglese Jamie Cameron, autore, in un decennio, di due soli album, “Hooray! For Happiness” del 2010 e “The Nothing”, uscito nel 2017. Due album riusciti ed emozionanti, ma molto diversi tra loro. “Wholeness” in soli 26 minuti, cambia, ancora una volta, le carte in tavola. Tra aperture orchestrali (“Wholeness and The Implicate Order”) con sfumature jazz e scariche elettrostatiche, passaggi spoken word (“In The Belly of a Whale”), folk minimale sporcato da rumori urbani (“Shower Song”), momenti di austerità quasi classica (“Spirit of the Staircase” e “Untitled Piece for Piano & Viola”), è un lavoro magnifico, che invoglia, nonostante il dolore che traspare tra le sue note, ad ascolti ripetuti, a un’immersione in profondità all’interno di ogni traccia, di ogni suono. È un album inquietante e sublime al tempo stesso. Difficilissimo da inquadrare, “Wholeness” è complesso e, tuttavia, immediatamente coinvolgente (ho letto un paragone con l’album solista di Mark Hollis e mi sembra, in qualche modo, come atmosfere, l’unico calzante). È incredibile come in meno di mezz’ora, “Wholeness” riesca a sintetizzare tante sensazioni diverse e a sublimare un’esperienza personale fatta di dolore e perdita, per regalare una sensazione di confortevole calore. Jamie Cameron è un autore riservato e poco prolifico ma dal talento immenso.

Sufjan Stevens – The Ascension
Come si fa adesso a scrivere qualcosa di interessante su “The Ascension”? Sufjan, negletto dalla maggior parte delle “classifiche di fine anno”, ha fatto un album ancora una volta straordinario, per quanto sia riuscito ad alienarsi sia le simpatie di coloro che ne apprezzano il lato più folk e intimo, sia di coloro che ne ammiravano l’indole sperimentale. Era difficile dare un degno seguito all’inarrivabile “Carrie & Lowell” e così Sufjan ha deciso, semplicemente, di cambiare se non sport, almeno modulo di gioco: niente più canzoni personali e introspettive, ma (sempre a modo suo) commentari sullo stato delle cose, niente chitarra acustica ma sintetizzatori e drum machine. E se pensate che l’elettronica fosse già presente e preponderante ai tempi di “The Age Of Adz”, Sufjan vi spiazza nuovamente: qui non si tratta di electro, è puro pop contemporaneo quello proposto in “The Ascension”. C’è molto di più, naturalmente, in questo lavoro lunghissimo e densissimo, le cui parole suonano come veri e propri slogan (a rischio – voluto e cercato – di sembrare semplicistiche) ed è grazie alla sua densità, alla sua mancanza di misura, al suo eclettismo che l’opera risulta più centrata e immediata di “The Age Of Adz” e, “tra mistica e dancefloor“, Sufjan ha scritto un altro album importante, penalizzato solo dall’infinito e immenso amore che ha accompagnato e accompagna ancora il suo predecessore.

Nadia Reid – Out Of My Province
Il terzo lavoro di Nadia Reid è stato prodotto e inciso a Richmond, in Virginia, con il produttore Trey Pollard e la house band dell’etichetta Spacebomb che hanno trattato le composizioni dell’artista neozelandese con un’audace nuovo approccio: gli arrangiamenti di archi, trombe, piano e rhodes, hanno reso le canzoni di “Out Of My Province” corpose, raffinate e profonde senza tuttavia aggiungere suoni superflui e rispettandone i silenzi e le pause, che arrivano sempre al momento opportuno. Una maturazione evidente in ogni aspetto dell’album, dalla scrittura, alla produzione, agli arrangiamenti, ma anche e soprattutto nella vocalità di Nadia che raggiunge vertici espressivi fino ad ora mai toccati: il suo cantato flessibile e pulito, sempre pieno di sentimento, acquista agilità e maturità e nonostante la gravitas che lo contraddistingue e sembra sempre più naturale e spontaneo. Ascoltare l’album è, così, un’esperienza disarmante che rende vulnerabili, ma che conforta. La scabra intensità dell’opera è una specie di monito: non importa quanto si possa essere in movimento, quanto impegnati, quanto in difficoltà, perché la necessità della riflessione, del ricordo, del sentire le cose in profondità non può essere intaccata dalle contingenze. Un monito perfetto per questi nostri tempi incerti.

Gary Olson – Gary Olson
Il nuovo omonimo album solista di Gary Olson, leader degli amati The Ladybug Transistor, è un lavoro magnifico, un compendio di pop cameristico di sopraffina eleganza. È una pietra preziosa (rimasta, a quanto pare, piuttosto nascosta, purtroppo), un capolavoro minore fatto di brani pop perfetti come “Giovanna Please”, “Postcard from Lisbon”, “All Points North” o la magnifica “The Old Twin” e di canzoni che oscillano tra toni intimi e malinconici e momenti più briosi e sbarazzini, come l’indie-pop di “A Dream for a Memory” o “Afternoon into Evening”, tra chitarre C86 e Go-Betweens. Il tutto all’insegna della melodia, dell’immediatezza e della cura della produzione (del resto Olson è anche un valente produttore di suoni altrui). E poi c’è quella tromba, una sorta di marchio di fabbrica di Gary Olson: onnipresente, ma sempre discreta, con il suo suono nostalgico e evocativo riesce a colorare intensamente ogni brano fino a elevarlo al di sopra della semplice ballata pop. Un album che dovrebbe scaldare molti cuori, oltre al mio.

Tunng – Tunng Presents​.​.​.​DEAD CLUB
Non mi stupisce che un album completamente incentrato sulla morte e la perdita che ne consegue non sia stato un grande successo commerciale e sia passato quasi sotto silenzio. In Italia, poi, paese nel quale si ascolta musica straniera spesso senza comprendere del tutto o approfondire i testi, un lavoro così concettualmente denso è facile che passi quasi inosservato. Eppure questo concept album, intriso della quasi proverbiale (il termine folktronica sembra stato inventato per loro) miscela di folk delicato ed elettronica minimale dei Tunng e ispirato dal libro di Max Porter” Grief Is A Thing With Feathers”, non è un lavoro pesante o lugubre. Tutt’altro: i Tunng rivestono le loro profonde e articolate elucubrazioni sulla morte con sonorità brillanti e vivaci, con costruzione melodiche sorprendenti e con una notevole dose di ironia. Il “Dead Club” dei Tunng è un luogo dove argomenti spesso tabù per la musica “leggera” (ma anche tabù tout court) riescono ad essere affrontati senza paura o remore. Tra chamber-folk, ballate sincopate, spoken word e romantiche melodie (come nella magnifica “Scared To Death”), questo è uno degli album più riusciti della già straordinaria carriera della band di Mike Lindsay (sempre più notevole la sua produzione) e Sam Genders.

The Very Most – Needs Help
The Very Most da Boise, Idaho, fondamentalmente un progetto solista di Jeremy Jensen, è una band attiva da quasi vent’anni e “Needs Help” è il loro quinto album che arriva a dieci anni di distanza da “A Year With The Very Most”, ultimo lavoro di inediti. Stavolta, come spiega il titolo, Jensen si avvale dell’apporto di diverse voci femminili (Melanie Whittle di The Hermit Crabs, Kristine Capua dei Tiny Fireflies, Sarah Lowenbot dei Thee Ahs, Ashley Eriksson dei Lake, Cristina Quesada, solo per citarne alcune), in modo da potersi permettere costruzioni melodiche e armonie più complesse e superare i limiti delle proprie capacità vocali. Le dodici canzoni si muovono fragili e deliziose tra Belle and Sebastian e Camera Obscura, tra Sarah Records e Postcards, tra Smiths e Stereolab con qualche incursione perfino verso lo shoegaze più melodico. Le composizioni di Jensen sono mirabilmente equilibrate e squisitamente melodiche e le collaboratrici regalano performance notevolissime contribuendo a forgiare gioielli di pura oreficeria (indie)pop, che fanno di “Needs Help” uno degli album pop (senza necessari prefissi) meglio riusciti dell’anno.

Big Eyes Family – The Disappointed Chair
Il collettivo di Sheffield è sulla scena da almeno quindici anni, modificando il proprio nome per ogni nuova uscita (Big Eyes, poi Big Eyes Family Players ora solo Big Eyes Family) e spostando il proprio suono da uno stile folk molto classico e tradizionale verso un suono più delicatamente psichedelico, ispirato agli anni ’60. Su “The Disappointed Chair” hanno lavorato con il produttore Dean Honer creando un suono che senza dimenticare il passato e, anzi, sposandolo a pieno, adotta soluzioni sonore vicine ai Broadcast, agli Stereolab e alle idee di Jane Weaver. Un lavoro misurato e in bilico tra folk psichedelico e istanze pop folktroniche. James Green scrive canzoni eleganti e incisive, senza dimenticarne mai il lato melodico e la voce di Heather Ditch è perfetta nel legare le sonorità della band alla classicità dell’interpretazione. Sperimentali, creativi e abili, i Big Eyes Family hanno composto un album incantevole e stimolante.

Louis Philippe & The Night Mail – Thunderclouds
Giornalista sportivo, leggenda del pop barocco e produttore, il francese (ormai adottato dall’Inghilterra) Philippe Auclair, in arte Louis Philippe, dopo 13 anni è tornato con ben due album quest’anno (tre, se si considera quello di inediti e outtakes). Dopo The Devil Laughs, la collaborazione con Stuart Moxham, è arrivato (forse un tantino troppo tardi per scalare le “classifiche” di gradimento) anche Thundercloud, il primo disco della sua carriera inciso con una band dal vivo in studio, The Night Mail, trio composto da Robert Rotifer, Andy Lewis al basso e Ian Button alla batteria. Le tredici canzoni che compongono l’album sono fulgidi esempi di ciò che dovrebbe essere il pop (barocco o meno). Elegantissimi arrangiamenti di fiati, archi, armonie jazzy, soundtrack per immaginari spy movies, ballate crepuscolari e nostalgiche. E ancora armonie neoclassiche, sonorità che richiamano Burt Bacharach e Sean O’Hagan, testi eleganti e particolarmente incisivi, il ritorno di Louis Philippe, in un momento in cui l’attenzione per il cosiddetto “sophisti-pop” è altissima, è un avvenimento e una conferma (dopo quaranta anni di carriera ce n’era ancora bisogno?) dell’incredibile talento di un compositore la cui raffinatezza ed eleganza sono seconde solo al suo savoir-faire e understatement.

Kinbote – Shifting Distance
L’album di debutto del produttore scozzese Matt Gibb, in arte Kinbote (nome preso in prestito dal narratore di “Fuochi Pallidi” di Nabokov), è stato inciso usando un’attrezzatura di fortuna: una tastiera Yamaha rotta presa in un charity shop, una drum machine, un campionatore e un microfono. Con questi pochi mezzi Gibb ha creato dodici brani convincenti e perfettamente compiuti, pieni di sonorità elettroniche lo fi, found sounds e dei più disparati campionamenti. Ciò che colpisce, immediatamente (sin dall’ascolto del primo singolo “Hiemalis”), è il calore presente nelle tracce, nonostante i glitch, i giochi in fase di produzione, le diavolerie elettroniche che ne caratterizzano le sonorità: le canzoni che compongono l’album rimangono sempre, prima di tutto, canzoni, senza mai perdersi nell’astrusa sperimentazione. Merito anche della voce di Gibb che, per quanto spesso possa sembrare impassibile, dona vita e anima alle composizioni, cantando sommessamente testi in bilico tra astrazione e mondana concretezza. In un lavoro del genere, a fare la differenza è proprio il coinvolgimento emotivo veicolato da queste sghembe ballate folktroniche e dalle stratificazioni di suoni sulle quali sono costruite. Trenta minuti di suoni, melodie, trovate eccitanti e ritmi spezzati che risultano sempre stimolanti e, a tratti, entusiasmanti.

Logan Farmer – Still No Mother
Dopo sei album a nome Monarch Mtn, il cantautore del Colorado Logan Farmer ha inciso – su Western Vinyl – per la prima volta un album a proprio nome. Gli otto magnifici brani di “Still No Mother” sono espressioni di un folk personale ed evoluto, frutto di una profonda ricerca sonora e di arrangiamenti ricercati e originali. Un brano straordinario per lirismo e trascinante passionalità come “Rome, Through A Fog” ne è un esempio perfetto: la visione del folk di Farmer è decisamente peculiare e moderna poiché a un cantato sommesso, ma incisivo, e all’uso sapiente della chitarra affianca sonorità dilatate e field recordings (pare raccolti in Islanda) e, spesso, lunghe code strumentali e distorte che conferiscono alle composizioni uno spessore, anche emotivo, inusitato. Le sue sonorità sono volutamente dolci e delicate, ma frammenti di penetrante dissonanza si trovano sparsi ovunque nell’intenzione, come spiega lo stesso autore, di catturare i tranquilli momenti di contemplazione prima dell’arrivo della tempesta. Uno dei lavori folk di maggior pregio dell’anno appena trascorso.

Lorna – Constellation
Ci hanno messo oltre due anni i Lorna a tornare con un nuovo album, dopo che, nel 2019 con la pubblicazione di un gustosissimo singolo, era stata annunciata l’uscita di “Constellation”, poi rimandata senza alcuna motivazione apparente. Il sesto disco del sestetto di Nottingham è composto da nove canzoni che evocano il loro suono ormai classico in bilico tra slow core e dream pop ma stavolta (e forse per la prima volta nella loro lunga carriera) la barra è spostata decisamente a favore di un pop sognante e scintillante che predilige soluzioni solari e calde grazie all’interazione sempre più intensa tra le orchestrazioni e l’uso ancora più marcato di sottili arrangiamenti elettronici. Mark Rolfe e sua moglie Sharon Cohen-Rolfe cantano in maniera soave e incantevole e alcuni brani (su tutti i due singoli “Through the Tall Grass” e “Foxes”) rasentano la perfezione pop. La scelta di rendere le composizioni della band più articolate e complesse, lungi dall’appesantire la proposta sonora della band, rende il loro suono più avventuroso e variegato. Autenticità e passione risuonano ancora una volta tra le note delle canzoni dei Lorna che, sebbene decisamente più luminose e vivaci che in passato, non tradiscono la loro mirabile (e amabile) vena malinconica.

Philip Parfitt – Mental Home Recording
“Mental Home Recordings” è il secondo album solista del cantautore Philip Parfitt, già noto negli anni ’80 come leader dei The Perfect Disaster. Così come accaduto già per l’album d’esordio (di sei anni fa), Parfitt suona quasi tutti gli strumenti e riempie le sue canzoni, introspettive e sentite, con melodie malinconiche e dolci e testi toccanti e mai banali. In qualche modo i Velvet Underground di “Sunday Morning” emergono qui e là, tra note acustiche e ritornelli delicati. Un album, “Mental Home Recordings”, che ha la capacità di evocare Lou Reed e Leonard Cohen, Nick Drake e David Sylvian, rimanendo sempre assolutamente credibile e pieno di personalità. Un disco di cantautorato folk psichedelico maturo e incredibilmente coinvolgente, nostalgico e consapevole, intriso di quelle sonorità intense e malinconiche che non possono non avere uno spazio dedicato nel mio (e nel vostro) cuore.

Zola Mennenöh – Longing for Belonging
Zola Mennenöh, poliedrica artista tedesca trasferitasi a Copenaghen, abbandona il suo ruolo di touring e session musician per pubblicare il suo album di debutto, lavoro nel quale riesce abilmente e con grande maturità a coniugare sperimentalismo avant-pop, sontuosi arrangiamenti d’archi, svolazzi classici e improvvisazioni jazz sperimentali a canoniche composizioni di oscuro alt-folk. La vocalità elegante ed eclettica che permette alla Mennenöh di esplorare diversi approcci alla materia sonora e di veicolare emozioni intense e spesso catartiche fa di Longing For Belonging un album peculiare e affascinante, una raccolta di ballate atipiche arrangiate in maniera irregolare e inventiva. Il brano di 12 minuti dedicato alla pioniera sperimentale Pauline Oliveros è, poi, un passaggio impervio, ma coraggioso che conferisce all’intero lavoro profondità e spessore. Un album destinato a ammaliare ascolto dopo ascolto.

Shabason, Krgovich & Harris – Philadelphia
Seguo (in maniera discontinua, devo ammetterlo) Nicholas Krgovich (e il chitarrista Chris Harris che da sempre lo accompagna) sin dai tempi del gruppo chamber pop P: ANO e ho molto apprezzato alcuni suoi lavori solisti e le collaborazioni frequenti con Mount Eerie. Non conoscevo, invece, Joseph Shabason, che ha suonato il suo sax soprattutto con Destroyer. “Philadelphia”, il primo album collaborativo del trio, è un magnifico esempio di pop sofisticato che prende ispirazione da band quali i Blue Nile o i Talk Talk (quelli tardi, naturalmente), contaminando quelle sonorità con un tocco jazz, ambient e new age arrivando a risultare rilassante e avvolgente. Altrettanto caldi e miti suonano i testi scritti da Krgovich che dipingono, spesso con sottile ironia ma con affetto, ambienti e situazioni domestiche calme e meditative nelle quali trovano una sorta di ordinaria bellezza, e vengono cantati con voce espressiva e delicata, quasi cullante. La title track, una cover del brano scritto da Neil Young per il film Philadelphia del 1993, ne è un esempio brillante, ma altrettanto convincenti suonano “Osouji”, che si ispira alla tradizione giapponese delle pulizie profonde di fine anno, “Sun In The Kitchen” e il dittico “Tuesday Afternoon” e “Friday Afternoon”, o i carezzevoli otto minuti di “I Can’t See The Moon”. In altri tempi si sarebbe parlato di soft rock, ma, a prescindere dalle classificazioni, è certo che ascoltando questo lavoro è facile mettere in pausa la vita per un momento e fare in modo che tutte le preoccupazioni terrene svaniscano. E, di questi tempi, non mi pare poco.

Smokescreens – A Strange Dream
Il terzo album dei californiani Smokescreens è un lavoro breve e incisivo che si dipana tra chitarre jangling byrdsiane, ballate soffuse che rimandano ai Go-Betweens e al Dunedin sound, richiami velvettiani e, soprattutto melodie semplici ma efficacissime. Non a caso registrato insieme a David Kilgour dei Clean, “A Strange Dream” è un album impeccabile, brillante, immediato e terribilmente coinvolgente che riesce a toccare tutte le corde giuste, grazie a magnifiche canzoni guitar-pop senza età, vivaci ed emozionanti. Per chi fosse appassionato di certe sonorità, senza andare in Australia, è questo l’album da ascoltare: mezz’ora sbarazzina e malinconica dalla disarmante bellezza.

Mr. Alec Bowman – I Use To Be Sad & Then I Forgot
“I Used To Be Sad & Then I Forgot” è l’esordio di Alec Bowman, per anni parte del duo dub ambient Formication, ed è un album straordinario, sia sotto il punto di vista del contenuto lirico che sonoro, grazie anche alla produzione impeccabile di Josienne Clarke (nostra “vecchia” e amata conoscenza, nonché compagna del musicista di Nottingham), che supporta delicatamente le semplici melodie di chitarra di Bowman e la sua voce stentorea e profonda. Oltre alla chitarra di Bowman ci sono le tastiere di Paul Mosley, le chitarre della Clarke, armonium, ottoni e legni e i suoni ambientali contribuiscono a dare profondità alle sonorità dell’album. La personalità dell’artista traspare da ogni nota, sia per l’efficacia dei suoi testi che per la magnifica interpretazione (e c’è da chiedersi perché, fino a oggi, un cantante così dotato non avesse mai sfruttato tale talento) e, sebbene le atmosfere siano sempre piuttosto oscure, la seconda parte del lavoro sembra aprirsi verso la speranza, quasi a simboleggiare un viaggio dalla disperazione (I Used To Be Sad…) verso la luce (…and Then I Forgot). Non è un caso che l’album si concluda con “Never The End Of The World” che contiene versi di quieto ottimismo: “Take a leaf from my story, don’t disappear till it’s time… but don’t take it from me, wait and you’ll see, life is much larger than you.” “I Used To Be Sad & Then I Forgot” è un album coraggioso, cupo ma non senza via di uscita e, soprattutto, pieno di canzoni davvero superbe e superbamente arrangiate e interpretate.

Snails – Hard-Wired
Da Bristol arriva uno dei più suggestivi e deliziosi album di indiepop dell’anno: è “Hard-Wired”, il bellissimo secondo lavoro degli Snails. Basterà ascoltare l’apertura “It Doesn’t Have To Be True” per innamorarsi perdutamente di queste sonorità gentili e piene di grazia. Gli Snails scrivono canzoni pop delicate e senza tempo, tenendo come riferimento i concittadini della Sarah Records, senza dimenticare l’insegnamento del minimalismo dei Young Marble Giants e la passione per le atmosfere calde e intime dei primi Belle & Sebastian. Nonostante le apparenze, tuttavia, non si tratta di un lavoro twee esclusivamente nostalgico e malinconico (e non sarebbe comunque un male…) e benché le canzoni siano di immediata accessibilità – e rapiscano al primo ascolto per la loro freschezza e il loro garbo – c’è bisogno di numerosi ascolti per entrarvi più in profondità. “Hard-Wired” trasmette un senso di quiete e di calore e ci regala tranquilla bellezza, eppure riesce a giocare brillantemente anche con le sue ombre e le sfumature.

Sam Burton – I Can Go With You
Anche se “I Can Go With You” è il primo album ufficiale di Sam Burton, il cantautore di Salt Lake City, ora di stanza a Los Angeles, aveva già prodotto un paio di cassette e un e.p., rigorosamente casalinghi. Grazie all’etichetta Tompkins Square il suo talento cristallino è ora disponibile a un pubblico più vasto e il fascino delle sue ballate folk ha permesso a tanti, nostalgici e non, di riassaporare gusti acquisiti ma oramai quasi dimenticati. In un anno in cui il folk classico ha avuto pochi guizzi degni di nota, Burton ha saputo con personalità e talento restituire nelle sue canzoni l’aura di un’epoca musicale che, per quanto possa sembrare fuori moda, è, in realtà, oltre ogni moda. Perse nelle nebbie del tempo le sonorità della chitarra di Burton e la sua voce sicura e piena di calore rivelano il grande talento compositivo dell’artista americano che, senza dimenticare per un attimo i propri numi tutelari (Tim Hardin e Fred Neil su tutti), riesce a scrivere canzoni ben strutturate e con felici intuizioni melodiche, ricche di sentimento e trasporto. Grazie anche al tocco del produttore Jarvis Taveniere (Woods, Purple Mountains) le semplici sonorità di Burton acquistano spessore e profondità, e così la malinconia si fa più struggente, il romanticismo diviene maggiormente strappa cuore e Sam Burton riesce a regalare un album che si affianca alle cose migliori di Barna Howard, Bill Callahan o Damien Jurado.

Lisa/Liza – Shelter Of A Song
Liza Victoria, cantautrice di Portland (quella nel Maine) registra le proprie canzoni sotto il moniker di Lisa/Liza, creando musica folk contemplativa e rallentata, ben radicata nella natura. Su Orindal erano usciti i suoi due primi lavori, il magnifico “Deserts of Youth” nel 2016 e il successivo “Momentary Glance” nel 2018. Il nuovo album “Shelter Of A Song” è composto da canzoni riflessive e senza fretta, che seguono il passo lento della natura, canzoni che, immerse nel paesaggio, ne esaminano la connessione con le nostre emozioni più recondite e i nostri ricordi più personali. L’opera riprende i temi ormai cari all’autrice americana, ma li tratta in maniera ancor più approfondita e piena di speranza. Una speranza dovuta alle particolari condizioni di salute di Liza che ha avuto la possibilità di lavorare alla propria musica solo a tratti, traendone, tuttavia maggiore gioia e giovamento. Ogni traccia risulta così un vero e proprio rifugio, un attimo strappato al presente, uno spazio alternativo, al di fuori delle sofferenze e delle preoccupazioni quotidiane. Un posto e un tempo dove preservare ricordi e sensazioni al riparo dal dolore, dall’incertezza e dalla sofferenza. Un album necessario in un momento come quello che stiamo attraversando.

Fleet Foxes – Shore
Shore è il quarto album dei Fleet Foxes, un disco uscito a sorpresa nel momento esatto dell’equinozio d’autunno (alle 14:31 GMT). Ma a sorprendere non è solo la pubblicazione dell’album (di cui neanche gli addetti ai alvori sapevano nulla fino a poche ore prima) ma anche la rinnovata capacità della band di Pecknold di creare armonie davvero limpide e efficaci. Le quindici tracce che compongono l’album (quasi un’ora di musica) non risultano mai stucchevoli e suonano, anzi, fresche e piene di vigore, come se, dopo la pesantezza e l’oscurità di Crack-Up, la band abbia trovato nuova linfa e vitalità. “Shore” è un album che usa la metafora dell’acqua per raccontare e veicolare la sensazione di un abbraccio avvolgente e lo fa attraverso un suono denso, ma più accessibile e chiaro, più immediato. La voce di Pecknold è più cristallina e potente che mai e le melodie più brillanti e riconoscibili. Un brano come “Sunblind”, una sorta di tributo ai musicisti prematuramente scoparsi che cita Richard Swift e David Berman, è estremamente commovente e emblematica dell’approccio più terreno, più umano e meno astratto con il quale questa eccellente raccolta di canzoni è stata concepita e composta.

Modern Studies – The Weight Of The Sun
L’incanto inaugurato con Swell to Great nel 2016 (e proseguito due anni dopo con Welcome Strangers), si è rinnovato nel terzo capitolo della discografia del quartetto anglo-scozzese, che prosegue nell’esplorazione del versante meno in luce del chamber folk, quello strettamente imparentato con il folk-rock e gli sperimentalismi dei primi anni 70. Il geniale Rob St. John e la sua controparte Emily Scott duettano tra melodie inebrianti (Heavy Water) e ballate umbratili (Jaqueline), ritmiche marcate (Spaces) e trascinanti groove di basso (Brother), strumenti organici e tastiere vintage, in un lavoro che, più caldo e avvolgente del suo predecessore, gioca abilmente su un susseguirsi di chiaroscuri, atmosfere delicate e scenari lividi e opprimenti, momenti di inaspettata gioia e dolorose meditazioni sul tempo. Profondo e poetico, denso ed elaborato, The Weight Of The Sun è la perfetta sintesi delle due anime dei Modern Studies, della voce scura e profonda di St. John e di quella pura e cristallina della Scott. Perfettamente bilanciato tra la ricerca sonora e la schiettezza e la semplicità delle linee melodiche non è un caso che il lavoro si apra con una fotografia (“Photograph”) e si chiuda con una suggestione di luce (“Shape Of Light”). Ricercato, intenso e terribilmente affascinante.

Idles – Ultra Mono
Il terzo lavoro degli IDLES, dopo il grande successo di Joy As An Act Of Resistance, era la prova del fuoco ma la band di Joe Talbot non si è tirata indietro e ha anzi rilanciato, finendo per fare saltare il banco. Ancora più esplicitamente politico dei suoi predecessori, Ultra Mono è un album che colpisce nel segno, travolge ogni critica (“You say you don’t like our clichés/Our sloganeering and our catchphrase/…/Fuck you/I’m a lover” canta Joe in “I’m A Lover”) e affronta temi scottanti con piglio incompromesso e battagliero (“The lunatics have taken over the asylum” affermano in “Carcinogenic”). Ultra Mono va sempre dritto al punto: concepito per le grandi arene, per il pogo e per i cori, non contempla sottigliezze o poesia, ma una batteria che picchia duro, un basso arcigno e riff di chitarra taglienti, ad accompagnare l’urgenza e l’irruenza del cantato catartico di Joe e, tuttavia, sono proprio la schiettezza e la mancanza di sofisticazione a fare di Ultra Mono un lavoro imprescindibile da parte di una band che, in un momento di grave recessione economica e musicale, rappresenta un unicum per sfrontatezza e coraggio. Gli IDLES, seppur con un suono ancora più netto e potente e con slogan ancora più efficaci ed essenziali, sono sempre più semplicemente gli IDLES (che piacciano o no).

Loma – Don’t Shy Away
Quando Dan Duszynski e Emily Cross dei Cross Records e Jonathan Meiburg degli Shearwater hanno dato vita al progetto Loma, l’hanno concepito come una collaborazione estemporanea. Poi l’apprezzamento manifestato da Brian Eno per la loro suggestiva miscela di sonorità folk rock ed elettroniche li ha spinti a ritornare sui loro passi e a incidere un nuovo album che amalgama, in maniera ancora più convincente dell’esordio, bassi cupi, ritmi spezzati, sintetizzatori, arrangiamenti lussureggianti, melodie atmosferiche e la voce ultraterrena e drammatica di Emily. Il risultato spesso entusiasma e la ciliegina sulla torta è “Homing”, brano prodotto, a distanza, proprio dallo stesso Eno.

Honey Harper – Starmaker
Nei panni di Honey Harper, William Fussell, artista del sud della Georgia e figlio di un Elvis Impersonator, ha deciso di rivitalizzare e rinnovare il Country attraverso un approccio che rifugge il machismo e il settarismo (razzismo?) di alcuni suoi rappresentanti, in maniera non dissimile da quanto fatto già dal grande Gram Parsons con la sua “Cosmic American Music”. Harper, sia con la propria immagine – lunghi capelli biondi platino, occhi decorati di strass e top di maglia abbinati a un cappello da cowboy – che con la sua musica, piena di eleganti arrangiamenti di archi, armonie morbide e slide guitars cullanti, cerca una via per portare il Country “alle persone a cui non piace il Country”. La sua voce delicata e la spiccata attitudine per le melodie fanno sì che “Starmaker”, scritto con la moglie e collaboratrice Alana Pagnutti, raggiunga perfettamente lo scopo di aiutare le persone a riconoscere la bellezza in qualcosa da cui, a prima vista, potrebbero rifuggire. L’uso di strumentazione non tradizionale per il genere (archi e sintetizzatori) contribuisce a spostare la barra delle composizioni di Harper verso un suono personalissimo, etereo e cosmico, regalandoci un album di country music unico e straordinariamente affascinante.

Grawl!x – Peeps
Peeps, è il quarto album del* polistrumentista di Derby Maria Machin, in arte Grawl!X, il primo dopo una trilogia che esplorava la malinconica solitudine del dolore (“Good Grief” del 2014, “Aye!” del 2016 e “Appendix” del 2018). Saranno stati i cambiamenti nella vita personale di Grawl!X, il raggiunto equilibrio o una maggiore consapevolezza artistica, sta di fatto che “Peeps” è costituito da nove brani meravigliosi ed emotivamente vibranti, arrangiati in modo originale e incredibilmente intimi e  vulnerabili. Il lavoro parla dell’amicizia e della empatia, della socialità e dell’importanza dell’aiuto reciproco, della necessità di godere della presenza altrui, argomenti affrontati con una certa preveggenza, visto quello che è successo proprio subito dopo la sua pubblicazione. Musicalmente il dreampop cameristico che da sempre caratterizza le sonorità di Machin è ancora presente, ma gli arrangiamenti suonano più elettronici gioiosi ed esultanti, riuscendo, comunque a rendere ogni canzone commovente ed emozionante. Un album eclettico e incantevole, affascinante e fragile: un’opera audace e che racchiude in sé qualcosa di magico. Un piccolo capolavoro purtroppo rimasto segreto.

A Girl Called Eddy – Been Around
A sedici anni dall’esordio con il nome d’arte di A Girl Called Eddy, e a due da “The Last Detail”, notevolissimo progetto a quattro mani con Mehdi Zannad (Fugu), torna in scena, con “Been Around”, Erin Moran stavolta coadiuvata dal musicista e produttore Daniel Tashian che, oltre agli arrangiamenti, contribuisce anche come autore. Grazie alla voce di Erin, ancora incisiva, emozionante e piena di vita, e a trovate sonore sempre riuscite “Been Around” è una collezione di melodie straordinarie, eclettiche e meravigliosamente prodotte. Il pop orchestrale, il soul bianco, le ballads in stile Burt Bacharach, il sophisti-pop, le influenze sixties, sono tutti elementi che contribuiscono a fare di questo gradito e lungamente atteso ritorno uno degli album di pop sofisticato ed adulto meglio riusciti dell’anno.

Rolling Blackouts Coastal Fever – Sideways To New Italy
Sono passati due anni esatti dalla pubblicazione di “Hope Downs” e i cinque australiani sono tornati con una nuova collezione di canzoni indie jangle-pop impeccabilmente realizzate, tra ritornelli perfetti, chitarre che si intrecciano e si legano insieme in scintillanti costruzioni melodiche e ritmiche vertiginosamente euforiche.  “Cars In Space” ha mostrato la direzione: il pop chitarristico dei RBCF si è fatto sempre più grintoso e diretto. Nel nuovo lavoro c’è qualche concessione alle ballate e a sonorità più levigate, ma sono sempre i brani più immediati e veloci a prendersi la scena: il fulminante secondo singolo “She’s There”, “Falling Thunder”, “The Second Of The First” sono canzoni esultanti e intrise di elettricità che con i loro ritmi esuberanti invitano al movimento, colpendo al primo ascolto e poi insinuandosi sempre più in profondità. I testi che stavolta si incentrano sullo spaesamento dovuto a due anni di intenso touring e sulla voglia di mantenere salde le proprie radici – non a caso il titolo allude a Nuova Italia, nel Nuovo Galles del Sud, da dove proviene il batterista Marcel Toussie – sono, anche stavolta, intensi e lineari. Secondo centro per i nuovi alfieri del jangle pop.

Alex Rex – Andromeda
Alex Rex è il nome d’arte dello scozzese Alex Neilson, già membro dei Trembling Bells, nonché batterista di Bonnie “Prince” Billy, Shirley Collins, Jandek e Current 93.  Andromeda è il suo terzo album solista, un lavoro diretto e crudo che ti afferra alla gola dal primo all’ultimo istante. Shirley Collins presta la sua voce narrante al brano d’apertura e da il tono a tutto l’album, che prosegue con brani dall’intenso lirismo, tesi e nervosi, in bilico tra il folk classico di Dylan e il cantautorato passionale e sublime di Leonard Cohen. Alex interpreta i suoi testi con grande passione e sembra ogni volta aprire il proprio cuore e percuotersi il petto, probabilmente poiché il fulcro creativo dell’album è stato concepito dopo la morte improvvisa di suo fratello minore. Le sonorità sono così angoscianti, disperate che anche Nick Cave viene in mente in alcuni passaggi particolarmente cupi. Andromeda è un lavoro sincero e ricco di emozione, pieno di contrasti tra tenebre e luce, tra bene e male, un ascolto a tratti impegnativo, ma meritevole di attenzione e amore.

Dead Famous People – Harry
Dons Savage, nascondendosi dietro il misterioso e affascinante moniker Dead Famous People, ha avuto una straordinaria ma troppo breve carriera negli anni ottanta: ha cantato in “Heavenly Pop Hit” di The Chills, si è trasferita a Londra dalla natia Nuova Zelanda quando il Dunedin Sound e proprio band come The Chills e The Clean stavano spopolando nel Regno Unito, ha ricevuto grandi elogi da John Peel, ha cantato con i St. Etienne e ha fatto uscire un mini album con l’etichetta di Billy Bragg, prima di tornare in Nuova Zelanda e far perdere le proprie tracce. “Harry” è il suo primo album vero e proprio. Dieci brani intrisi di quel Dunedin Sound ormai divenuto leggendario: cori stratosferici, chitarre jangle scintillanti e melodie sublimi, tra esultanza e malinconia. Ciò che colpisce in “Harry”, un album che suona alieno da ogni moda contingente, tra umorismo nero, (Looking At Girls), inni all’arte quale panacea di ogni male (Goddess Of Chill) e gustosi aneddoti sull’ambientalismo (Dead Bird’s Eye), è l’immensa capacità melodica di Savage e la sua abilità nello scrivere canzoni che riescono a coniugare il pop più puro e cristallino, che richiama direttamente quello più sofisticato del Brill Building, con sonorità fresche e moderne e un’attitudine decisamente più battagliera.

Tim Burgess – I Love The New Sky
Pur avendo alle spalle un gran successo, una dozzina di album con la propria band (The Charlatans) e quattro album solisti, Tim Burgess non è, evidentemente, un artista che si adagia sugli allori e con il suo nuovo lavoro, il primo per la Bella Union, si spinge più in profondità nella ricerca sonora e nell’esplorazione di nuove formule per rivitalizzare un pop inglese che, nelle sue propaggini più in vista, appare decisamente boccheggiante. I dodici brani di I Love The New Sky, per la prima volta interamente composti dal solo Burgess, sono vari nello stile e convincenti nella loro capacità di tenersi ostentatamente sul versante del pop senza però rinunciare a soluzioni sonore raffinate e peculiari. Avvalendosi di una folta schiera di collaboratori tra i quali spiccano l’originale e anticonformista Thighpaulsandra, (musicista e produttore noto per il suo lavoro con Julian Cope, Coil, Spiritualized, Elizabeth Fraser), il genietto Peter Broderick e una elegante sezione d’archi, Tim riesce a dare vesti policrome ed eccentriche alle sue deliziose melodie pop, cantante con l’inconfondibile voce sottile e vagamente nasale. Il risultato è un lavoro pieno di canzoni centrate e dalla presa immediata che si muovono agili tra britpop, baroque pop e folk psichedelico, mantenendosi enormemente orecchiabili e, allo stesso tempo, coraggiose nelle scelte degli arrangiamenti e nello stile. Un graditissimo (e sorprendente) ritorno.

Bonny Light Horseman – Bonnie Light Horseman
Il trio Bonny Light Horseman, composto da Anaïs Mitchell, Eric D. Johnson (Fruit Bats, Shins) e Josh Kaufman (collaborator di Josh Ritter, The National, Hiss Golden Messenger) esordisce grazie all’etichetta di Justin Vernon e lo fa con dieci canzoni folk piene di grazia e fragilità. Partendo da classici della tradizione irlandese e britannica, i tre li reinterpretano in maniera creativa e originale, spesso rendendoli più vicini alle composizioni dell’alt-folk contemporaneo che alle rivisitazioni sessantiane dello stesso canzoniere. Le sonorità della band sono essenziali e suggestive (il duetto tra Johnson e Mitchell in “Jane Jane” è particolarmente riuscito) e tra riscritture, invenzioni melodiche e rimaneggiamenti ai testi, sembra quasi di ascoltare materiale del tutto originale scritto, arrangiato e interpretato con classe cristallina e una buona dose di passione.

Baxter Dury – The Night Chancers
“I’m not your fucking firend” annuncia Baxter Dury nel primo verso del suo album. È solo il punto di partenza da cui si dipana un susseguirsi di storie minime e di personaggi spassosi, sordidi, insicuri, violenti, sbruffoni. L’umanità, insomma, di cui l’artista inglese si è sempre occupato nel corso della sua quasi ventennale carriera. The Night Chancers è composto da dieci canzoni caratterizzate dall’inconfondibile voce sprechgesang dal marcato accento cockney, dall’immancabile basso funky e dagli irresistibili cori femminili. Stavolta Dury, degno erede del padre Ian, ma anche depositario dell’allure del miglior Gainsbourg, si concentra sulle creature che popolano la notte, riversando nel tessuto delle sue storie la propria anima nera e il proprio caustico humor, osservando, tuttavia, i protagonisti delle proprie canzoni – non importa quanto spregevoli – con affetto e un po’ di immedesimazione. I ritmi rilassati, le tastiere vintage, gli archi e i fiati convogliano una vaga sensazione di capogiro, una vertigine da privazione del sonno che permea tutto il lavoro e Baxter riesce ad essere, in appena mezz’ora, molto divertente, eccentricamente inquietante e sinceramente toccante, e non è un caso che il breve viaggio notturno in compagnia di una guida così prestigiosa si concluda con il verso “Baxter loves you!”. Del resto è reciproco. We Love Baxter!

Moons – Thinking Out Loud
I Moons sono un sestetto proveniente da Belo Horizonte in Brasile. Cantato in inglese, “Thinking Out Loud”, il loro secondo album, è un lavoro delicato ed etereo, composto da dieci deliziose canzoni introverse e cullanti sciorinate senza fretta e con amorevole perizia. Nata come progetto solista dal cantante André Travassos, ma divenuta nel tempo un vero e proprio gruppo, la band brasiliana trae influenze dal folk classico e moderno, ibridandolo di volta in volta con una psichedelia gentile e con superbe sonorità sadcore, tanto che più che i nomi spesso citati come influenze (Bon Iver, Nick Drake) vengono in mente gli Spain di Josh Haden. Contrariamente a quanto affermato nel titolo dell’album, i Moon pensano a voce bassissima, e a mezza voce cantano e suonano carezzando l’ascoltatore e regalandoci quaranta minuti di quiete (prima della inevitabile tempesta) e intensa bellezza.

Decoration Day – Makeshift Future
L’album di debutto dei canadesi Decoration Day, “Makeshift Future”, giunge a tre anni da “Blind Contour”, e.p. che mi aveva letteralmente rapito per l’eleganza e la delicatezza delle sue canzoni, suonate e arrangiate, tuttavia, in maniera del tutto originale e quasi stravagante. “Makeshift Future” riparte da quel magnifico lavoro ma rende le sonorità della band più accessibili e orecchiabili. Non è una questione di semplificazione degli arrangiamenti (benché alcuni passaggi risultino decisamente più scarni ed essenziali), ma si tratta di una accresciuta capacità di scrivere melodie, di sviluppare armonicamente i propri brani, di infondere in essi calore e empatia. Il risultato è un caldo abbraccio sonoro, coronato da fiati, contrabbasso, vibrafono e archi. I Decoration Day scrivono canzoni che hanno un sapore antico, che non possono essere collocate nel tempo e nello spazio e che hanno una qualità quasi cinematografica. Così, in un momento in cui il futuro non può che essere improvvisato, giorno per giorno, questo album diviene un preziosissimo antidoto contro le ansie e le paure della vita.

Thibault – Or Not Thibault
Nicole Thibault, già voce dei Minimum Chips a cavallo tra gli anni 90 e i primi duemila, ha esordito con il suo nuovo progetto, semplicemente chiamato Thibault, con “Or Not Thibault”, un album raffinato, elegante e sognante che riesce a coniugare magnificamente sperimentazione e pop retrofuturistico, utilizzando una strumentazione eclettica (xilofono e ottoni, ma anche tastiere e sintetizzatori vintage) e la voce carezzevole, a volte distaccata, a volte coinvolgente, di Nicole (che ricorda a tratti addirittura Laetitia Sadier). Con l’aiuto di componenti di Parsnip e The Ocean Party, Thibault compone piccole gemme piene di melodie seducenti e di arrangiamenti imprevedibili. Tra timide ballate in odor di twee, richiami vintage, chitarre dal suono quasi post punk, magnifici arrangiamenti di fiati (e anche un omaggio a Morricone), le canzoni di Thibault trasmettono un senso vago di angoscia, di spiazzamento che è spesso veicolato da passaggi sonori tenui e, all’apparenza, delicati. Le numerose correnti che attraversano l’album, alla fine, riescono comunque a trascinarci in un’atmosfera onirica e ultra terrena e ad allontanarci da una realtà che si è fatta difficile da sostenere.

Helena Deland – Someone New
L’esordio della giovane canadese, che arriva a due anni dalla serie di EP titolata “Altogether Unaccompanied ” è composto da tredici brani che spaziano con estrema disinvoltura tra sonorità indie rock (Someone New), pop sofisticato (Truth Nugget), Americana (The Walk Home), folk intimista (Seven Hours, Fill The Rooms) e ballate cariche di synths (Pale). Il tutto è tenuto sapientemente insieme dalla eclettica voce della Deland, che sussurrata, distorta o cristallina, conferisce all’opera coerenza e malinconica armonia. Anche la profondità delle tematiche affrontate con pennellate decise, che dipingono bozzetti accennati ma affascinanti, contribuiscono a fare di “Someone New” un debutto personale e molto promettente.

Nat Vazer – Is This Offensive And Loud?
Da Melbourne arriva Nat Vazer che, dopo l’EP di debutto del 2018, “We Used To Have Real Conversations”, esordisce sulla lunga distanza con un album già maturo, intriso di indie-rock e cantautorato, che rimanda ad autrici già affermate come Courtney Barnett e Mitski, ma non disdegna richiami all’indie pop di Alvvays e Car Set Headrest. Un lavoro che non fonda la propria forza sull’originalità o su astrusi sperimentalismi, ma sulla passione e sulla schiettezza con le quali è stato scritto e suonato. Nat ci racconta della malattia della madre, del Clown miliardario che è alla Casa Bianca (ancora per pochissimo, si spera), si pone domande esistenziali, eppure molto prosaiche, poiché è pronta a condividere i propri turbamenti e le proprie angosce, che sono, poi, proprio le stesse che abbiamo noi.  Lo fa con una voce che trasuda sincerità, dolore, ribellione, desiderio e frustrazione (senza essere mai melodrammatica) e con dei riff di chitarra sorprendenti e difficili da dimenticare. Dall’inizio alla fine questo album è una affermazione di personalità e di sfrontatezza. E dimostra che non servono formule magiche per dimostrare il proprio talento.

Laura Fell – Safe From Me
L’album di debutto della londinese Laura Fell, musicista e psicoterapeuta, contiene otto brani di musica folk pura e incontaminata, composti con cura e attenzione. Musica del tutto fuori dal tempo, dettagliata, calda, scrupolosa e accuratamente studiata in ogni sfumatura, grazie anche a un’impeccabile schiera di notevoli musicisti che conferiscono colore e calore alle canzoni, rendendole ancora migliori e fornendo passaggi sonori magnifici. Nelle liriche, che rispondono anch’esse a tale meticolosa cura (ma, del resto, avendo scritto poesie per 10 anni non deve essere stato un compito particolarmente gravoso), la Fell – inevitabilmente, vista la sua professione – si interroga su se stessa e su coloro che la circondano, senza cercare risposte facili, senza abbandonarsi ad affermazioni nette, limitandosi a constatare quanto la conoscenza dei propri difetti e l’amor proprio siano la base di ogni sano rapporto con gli altri. “Safe From Me” suona familiare ed è facile lasciarsi trasportare dalle sue sonorità intense e avvolgente, eppure non è confortevole e riesce a essere quasi crudo nella sua devastante sincerità. Un album coraggioso e a tratti severo, ma che oserei dire necessario.

Hjalte Ross – Waves Of Haste
Attendevo con ansia il secondo album del cantautore danese Hjalte Ross, dopo aver amato “Embody”, il suo album d’esordio (molto amato anche dalla critica) e “Waves of Haste” ha ripagato la mia trepida attesa. Meno diretto ed essenziale di Embody, il nuovo lavoro riesce comunque a risultare immediato grazie alla fascinazione subitanea dell’intricato gioco di chitarra acustica di Hjalte Ross, al suono cristallino del pianoforte e alle morbide linee di basso. La voce sussurrata e la trama delle canzoni che diviene spesso più avviluppata e articolata fanno il resto. “Waves of Haste” è un album maturo, nostalgico ed evocativo, molto personale e sia le sue sonorità che i testi rivelano profonde sfumature emotive e grande perizia compositiva. L’album, prodotto sempre dal maestro John Wood e parzialmente registrato in un faro isolato su una delle isole Lofoten (si sentono qui e là field recordings con suoni d’acqua) suona malinconico ma pieno di fascino, perfetta colonna sonora di un viaggio per mare, probabilmente senza meta.

Kevin Morby – Sundowner
Dopo Oh My God, un album rock dalle sonorità immediate, il prolifico Kevin Morby è tornato con un lavoro, il sesto in otto anni, più scarno e crepuscolare. Concepito in Kansas e registrato in Texas, Sundowner è un lavoro di folk rock classico e senza orpelli: l’essenza del suono del midwest in dieci brani costruiti su chitarra e voce, conditi da una discreta sezione ritmica, mellotron e organo a pompa e impreziositi dalla voce di Katie Crutchfield (Waxahatchee) che, compagna di vita di Morby, ha condiviso con lui un isolamento prima cercato e poi imposto dalla pandemia. Il risultato è un’opera malinconica, una rappresentazione sincera della solitudine e dello spaesamento. E l’ennesima prova che Morby è un grande talento che cerca sempre nuove strade per esprimersi compiutamente.

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