Jetstream Pony – Jetstream Pony

jetstream pony

Francesco Amoroso per TRISTE©

Ha ancora senso, giunti alla soglia della mezza età, scrivere, incidere e suonare, ma soprattutto ascoltare un genere musicale nato e cresciuto per veicolare sentimenti, pulsioni, sensazioni e emozioni adolescenziali?

È una domanda che mi balena nella mente sempre più di frequente, quando mi avvicino a un nuovo album indiepop suonato da veterani della scena che con me condividono non più soltanto un comune sentire ma anche l’età anagrafica. Eppure, altrettanto spesso, i miei dubbi sono spazzati via nel tempo di un paio di battute.

Quando si cresce insieme, in fondo, ci si assomiglia un po’ e si arriva alle stesse conclusioni: il modo di guardare alla vita che avevo a 16 anni è, inevitabilmente, una parte fondamentale di quello che sono oggi e lo stesso può dirsi di coloro che, nonostante il passare del tempo, scelgono di esprimersi attraverso le sonorità che hanno caratterizzato la gloriosa epopea (molto sotterranea) dell’indiepop.

Nel caso dei Jetstream Pony sono davvero state sufficienti le prime note della canzone che apre il loro omonimo album d’esordio, a convincermi a mettere da parte certi dubbi.

Il gruppo inglese di stanza tra Brighton e Croydon è una specie di supergruppo indiepop, con Beth Arzy (Aberdeen, Trembling Blue Stars, The Luxembourg Signal, Lightning in a Twilight Hour) alla voce (e già questo nome potrebbe bastare per una imperitura adorazione), Shaun Charman (The Wedding Present, The Popguns, The Fireworks) alla chitarra, Kerry Boettcher (Turbocat) al basso e Hannes Müller (The BV’s, Endlich Blüte, che si è unito alla band dopo la registrazione dell’album) alla batteria.

Nati quasi per gioco con Beth e Shaun che hanno registrato alcuni demo su un iPad, i Jetstream Pony (che prendono il nome dal levriero da corsa di Shaun, ormai a riposo) si sono guadagnati in brevissimo tempo, con un paio di e.p. per la piccola e magnifica Kleine Untergrund Schallplatten di Augsburg, attenzione e seguito, finendo per suonare in giro, soprattutto per Germania e UK, anche di supporto a vere e proprie icone della scena indie come The Wedding Present, tanto da interessare anche l’americana Shelflife (marchio di qualità assoluta quando si parla di indiepop) per la quale, in collaborazione con l’etichetta tedesca, hanno fatto uscire la loro prima raccolta di 10 canzoni.

“It´s Fine”, che apre l’album è una sorta di manifesto del suono della band: la spinta ritmica del post-punk, il turbinio di chitarre del dream-pop, le melodie irresistibili dell’indie pop e un inevitabile patina di malinconia veicolata dalla voce sempre più iconica di Beth Arzy.

Si avverte immediatamente una tensione tra sonorità indie pop più scintillanti e qualcosa di più oscuro, con una sezione ritmica che sfiora il post-punk e chitarre che si fanno spesso affilate. È questa una caratteristica di tutto l’album che contribuisce in maniera decisiva a rendere Jetstream Pony qualcosa di più della solita rivisitazione, per quanto brillante, di sonorità e tematiche già sentite.

Brani come la già citata It’s Fine, Mitte, Trapped in Amber, Gone to Ground e Outside brillano di luce propria con le loro chitarre jangly e le melodie trascinanti spesso circondate o accompagnate da sontuosi strati di fuzz, che però non le sovrastano mai.
Del resto i Jetstream Pony hanno un vantaggio rispetto alle tante band che ripropongono sonorità guitar pop: la meravigliosa voce di Beth Arzy che, anche quando è ammantata  di sonorità più aggressive e cupe, cariche di foschia a angst, rimane piena di rimpianto, sognante, aerea e carezzevole, eppure incredibilmente incisiva.

Così anche in brani come “I Think I’m Ready To Let You Go” o “The Very Eyes of Night” (che contiene l’irresistibile ritornello “Sometimes I’m happy on my own“) che si spingono più temerari verso il post-punk, è la vocalità vellutata di Beth a tenere il tutto insieme in maniera coerente ed efficace.

I hope you’re warmer to the ones that you love” canta, poi, Beth in “Gone To Ground”.
Ed è forse questo l’attimo esatto (tra tanti momenti di delizia ed esaltazione che mi raggiungono ascoltando l’album) in cui capisco, senza più che un’ombra di dubbio offuschi la mia mente, come non solo dare una risposta alla mia domanda iniziale, ma anche rispondere all’ormai classico quesito che Nick Hornby si poneva nel suo “Alta Fedeltà” (What came first, the music or the misery? Did I listen to music because I was miserable? Or was I miserable because I listened to music? Do all these records turn you into a melancholy person?) sia un’attività del tutto oziosa: quando gioisco, piango, sfogo la mia rabbia o mi immalinconisco (questo è ciò che accade più spesso, a essere sincero) ascoltando le canzoni della mia vita, sto semplicemente vivendo, esprimendo me stesso, comunicando con il mio interiore nel modo più appagante.
Probabilmente nell’unico che conosco.

 

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