Francesco Giordani per TRISTE©
Ho due distinti ricordi legati ai Maccabees.
Il primo risale al dicembre del 2009. La band di Orlando Weeks apriva allora per gli Editors al Teatro Tendastrisce di Roma (luogo dell’unico concerto italiano degli Smiths, nel 1985, mi piace ricordarlo), durante il tour di In This Light On This Evening, l’album che, complice Papillon, aveva catapultato la band di Stafford molto al di fuori della nicchia indie, in un tempo comunque decisamente più favorevole alle rock band.
I Maccabees, infinitamente meno popolari degli Editors, ma equipaggiati di un album di notevolissimo valore come Wall of Arms fecero comunque il loro, scaldando il pubblico con ritornelli e riff che la venue tendeva a monumentalizzare anche più del necessario. Ricordo in particolare la mia sorpresa, a fine serata, nello scorgere Orlando Weeks e i suoi compagni di banda alle prese con foto e amabili chiacchiere in compagnia di fans giovanissimi.
Sei anni e due dischi dopo, di cui val la pena citare il bellissimo Given To The Wild, (in pratica il disco che i Coldplay avrebbero potuto e forse dovuto scrivere dopo A Rush of Blood To The Head…) fu una grande soddisfazione sentimentale (più che personale), aprendo Rockerilla, ritrovare una mia frase citata a mo’ di strillone nella pubblicità di quello sarebbe stato l’ultimo disco dei Maccabees, Marks To Prove It.
Era il 2015 e lo interpretai come un saluto ad un’epoca che sapevo avere ormai i mesi contati. Nell’estate del 2016 i Maccabees si sarebbero infatti sciolti, il loro comunicato d’addio è ancora su Instagram, “After 14 years as a band we have decided to call it a day”, inizia così.
Ascoltando A Quickening, esordio ufficiale di Orlando Weeks dopo la sonorizzazione della favola autografa The Gritterman, al fianco dell’attore Paul WhiteHouse, non ho potuto non pensare, con un filo di commossa nostalgia, a tutto il tempo che è passato da quel 2009 ma anche da quel 2015. Un tempo enorme, ricchissimo, impossibile da dire, talvolta anche da ricordare, nella sua sconfinata interezza. Un tempo difficile da far “passare”, per così dire. Tuttavia, e di questo sono certamente grato a Weeks e al suo disco, non posso né voglio dimenticare che tutto quel che lasciamo “passare”, ciò a cui accordiamo il permesso di essere “passato”, può a sua volta liberare spazi vitali per nuovi inizi, non necessariamente immemori.
Weeks oggi ha 37 anni, è diventato padre e, dopo stagioni trascorse a Lisbona e Berlino, è tornato a vivere stabilmente nella sua Inghilterra, dove il grosso del disco è stato scritto e composto in solitaria, se si eccettua il produttore e amico Nic Nell. Come altri colleghi della sua generazione (viene in mente Hayden Thorpe) l’Inglese ha firmato un disco bello e vibrante, nel quale risuonano memorie sparse dei Maccabees, com’era naturale che fosse, rimescolate a nuove suggestioni sonore, più intime e rarefatte, che guardano al cantautorato “contemplativo” di Arthur Russell, Robert Wyatt e Brian Eno, ma anche all’ultimo Thom Yorke, ai Sigur Ros o a Bon Iver.
Le nuove canzoni sono state costruite -meglio: dipinte- come piccole rappresentazioni teatrali, dice Weeks, ricorrendo, oltre al classico apparato rock, a strumentazioni più “atmosferiche” come pianoforte, korg, tromba e trombone, privilegiando una vena impressionistica nella quale l’evocazione poetica di un accordo sospeso o il lampo lirico di un verso contano più dei cliché e delle convezioni stilistiche di genere (indimenticabili e bellissime, in questo senso, le parole inaugurali di Milk Breath, che faranno battere il cuore di qualunque padre ne abbia uno: Me and you, kid/ Home alone, learning how to live/ You for the first time and me,/ Well… it’s been a long time coming/ The hardest part is getting started/ One foot falls in front of the other/ One word spills out after another/ Now you try….”).
La voce di Weeks, così caratteristica, epica e decorativa ad un tempo, nonché spesso in falsetto, è quasi sempre attrice protagonista, motore drammaturgico ed espressivo delle sofisticate raffigurazioni, in punta di pennello, di Safe In Sound, Moon’s Opera e All The Things (tra i vertici dell’album), None Too Tough o Summer Clothes.
L’impressione finale è che Orlando Weeks, diventando padre, sia in qualche modo, se mi si concede il paradosso, letteralmente “rinato”. Rinato a nuova vita ma anche e soprattutto a nuova forma musicale, com’è del tutto evidente.
Eppure, riallacciandomi a quanto dicevo poca sopra, in questa nuova forma-vita il passato dei Maccabees, proprio in quanto “passato”, resta con lui (e con noi). Per sempre.