Francesco Giordani per TRISTE©
Il 16 agosto del 2014 mi trovavo, quasi per caso, allo Sziget Festival, in quello che il mio compagno di viaggio di allora aveva prontamente (quanto genialmente) ribattezzato un “inferno approssimativo”. Gli effluvi chimico-psichedelici aleggianti nell’aria, potenziati all’ennesima dal convulso traspirare dei corpi compressi nel buio attorno a me e da una già montante stanchezza taglia-ginocchia, mi trascinavano in una danza ipnotica, che oggi non saprei ripetere né tantomeno descrivere a parole ma che la musica dei Wild Beasts, così psichica, così segretamente mistica, in qualche modo alimentava, come muovendomi dall’interno.
Proprio mentre (del tutto sobrio, mi preme sottolinearlo), caduta ogni difesa, mi abbondavo all’ebbrezza del mio viaggio da fermo, una ragazza bellissima e senza nome –l’avrei in seguito ribattezzata Diotima in onore della sacerdotessa che iniziò il giovane Socrate ai misteri dell’Amore- mi si manifestò. Dapprima soltanto come semplice voce. “Fico il tuo modo di ballare! Hai una sigaretta?”. Subito dopo, destatomi dalla danza, apparve anche la sua forma mortale.
Era danese e non stavo sognando. E, per giunta, avevo un INTERO pacchetto di sigarette in tasca.
Anche in quell’occasione la musica dei Wild Beasts, mia intima e benevola alleata, aveva operato un prodigioso incantesimo, tutto a mio vantaggio, dando corpo libero (è il caso di annotarlo!) alle mie più aeree fantasie. Detto altrimenti: le canzoni dei Wild Beats mi avevano reso speciale. Forse addirittura divino.
Ripensando a questo e a tutta la splendida musica che la band di Kendal in tre lustri di carriera ha donato a un gruppo invero non amplissimo di estimatori ed estimatrici, mi sono avvicinato alle acque cristalline di Diviner, esordio di quell’Hayden Thorpe che dei Wild Beasts fu indimenticabile voce, ma anche autore e valente polistrumentista. Concepito durante un volontario esilio californiano (all’indomani del non indolore scioglimento della band) e perfezionato poi, con l’aiuto del mentore Leo Abrahams, tra Londra e Cornovaglia, Diviner è, sin dal titolo, un lavoro rabdomantico, di pura ricerca e divinazione.
Il Diviner è infatti lo Sciamano, l’Indovino, eppure sarei tentato di tradurre la parola con Fonomante, termine coniato dai fumettisti Kieron Gillen e Jamie McKelvie nel loro bellissimo Phonogram, per definire quella specifica genìa di maghi e veggenti (fra essi anche molti di quanti stanno leggendo queste mie parole) che usano la musica pop come strumento d’incantesimi e profezie.
L’album di Thorpe prosegue a suo modo la parabola dei Wild Beasts ma non dal punto in cui essa si era bruscamente interrotta. Bisogna infatti riannodare il filo di Arianna almeno sino al terzo album della band, Smother, sontuoso monumento imagista che il quartetto dedicò al natio Lake District nel 2011, per riportare alla vista le sotterranee radici di questo Diviner. Disco in egual misura avant e pop, affidato (giustamente) tutto o quasi al diafano falsetto contro-tenorile di Thorpe, alle invenzioni di un pianoforte minimal-impressionista e ad un’effettistica elettronica d’atmosfera, memore di Eno e Hollis ma con sparsi barbagli di luce nordica à la Kate Bush.
Le dieci canzoni, scritte con mano ispirata e ancor più ispiratamente interpretate dal Nostro, brillano tutte per grazia ed equilibrio formale. Fra le migliori: il singolo Love Crimes, Straight Lines, Stop Motion, la superlativa Anywhen (che eguaglia gli esiti più alti dei Wild Beasts), fino alla quasi dichiarazione di poetica di Impossible Object.
Thorpe fonda così, sulla pietra levigatissima di queste dieci geometriche creazioni, il suo personale teatro di psicomagia e l’impressione è quella di trovarsi, archiviata l’esperienza Wild Beasts, giusto all’inizio di un nuovo e lungo sentiero. Del resto, come cantava il poeta, in my end is my beginning.
Un momento… E con Diotima? Come andò a finire poi? In qualche modo senza dubbio andò a finire. O a cominciare. Lasciamo alla magia il suo mistero.
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