Mary Lattimore – Silver Ladders

Alberta Aureli per TRISTE©

Lontano in alto mare l’acqua è azzurra come petali di bellissimi fiordalisi, e trasparente come cristallo purissimo, ma è molto profonda, così profonda che un’anfora non potrebbe mai toccare il fondo, e bisognerebbe mettere uno sopra l’altro molti campanili prima di arrivare alla superficie.

Sembra emergere dai fondali delle fiabe del nord, immerso nei misteri de La Sirenetta di Andersen, l’ultimo disco che l’arpista Mary Lattimore ha realizzato in collaborazione con Neil Halstead, e somiglia a certe fiabe del nord anche nella capacità di cullarci con dolcezza, lasciandoci intravedere allo stesso tempo l’ombra degli abissi.

Registrato in nove giorni nello studio di Halstead, in un vecchio aeroporto in Cornovaglia, Silver Ladders (to the sea), discende con coraggio in profondità, come fa chi non ha paura del buio: “Ho passato alcuni giorni solo nuotando nella baia, scale d’argento dritte nel mare”, ha raccontato Mary Lattimore svelando la prima ispirazione al disco avuta in una vacanza a Stari Grad, in Croazia, sull’isola di Hvar.
Nelle sette tracce è facile sentire il vento che muove l’acqua in superficie e immaginare il sole che fa brillare ogni goccia fino al buio, mentre, come in Til a Mermaid Drags You Under, il dialogo con la chitarra di Halstead si fa più intenso.

 In questo particolare viaggio che inizia con un’immersione solitaria, Mary Lattimore riemerge con la grazia di chi tiene tra le mani la sfera luminosa di una consapevolezza nuova e la gioia di chi vede la propria immagine riflessa nello specchio magico dell’acqua.

Ancora sulle ispirazioni di Silver Ladders, Mary dice: “Neil ha questo poster di un surfista nel suo studio e io lo guardo ogni giorno, guardando la luce del sole che brilla sull’onda scura. In queste canzoni mi piace il contrasto tra i bassi oscuri e gli alti scintillanti. L’oscurità e il barlume agli opposti”.

Ma se la ricerca filosofica occupa una parte centrale, Silver Ladders si offre contemporaneamente come un’opera narrativa in cui la memoria e i ricordi danzano sulle punte e ogni pezzo potrebbe essere un racconto: “il paesaggio della Cornovaglia, l’hotel del film The Witches, il tè alla panna, la vittoria al quiz del pub, il Sunday Roast, i fantasmi di tutti i surfisti morti tra le onde selvagge, le passeggiate notturne verso l’alto della collina per vedere la luna che splende sull’acqua… ”.
È questa vocazione narrativa che dà a tutto il disco e a pezzi come Sometimes He’s In My Dream o Don’t look in particolare, un’atmosfera cinematografica, e ad altri, come Chop on Climbout, echi più raffinati dove risuonano le musiche composte da René Aubry per i balletti di Carolyn Carlson.
Qualcosa a fine ascolto funziona proprio come nelle intenzioni dell’autrice ed è facile sentirsi rasserenati e insieme inquietati.

Da sempre la mia fiaba preferita di Andersen è La regina delle Nevi, che inizia con uno specchio malvagio che si rompe in mille pezzi inquinando e corrompendo l’anima del mondo, continua con il viaggio di una bambina tenace che non si rassegna alla perdita del fratello e finisce con un abbraccio capace di sciogliere il ghiaccio e il dolore.

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