Francesco Giordani per TRISTE©
Periferia ed esclusione. Sono questi i primi due concetti che mi balenano sempre alla mente quando si parla di “rock”, entrambi peraltro intimamente intrecciati, e non è affatto un caso, ad un’idea del “fuori”. Si tratta di un discorso complesso da svolgere e sistematizzare, me ne rendo conto, che richiederebbe ben altro tempo e strumenti d’indagine più aguzzi di quelli offerti da un elzeviro fuggitivo.
Tuttavia, almeno agli occhi di chi scrive le righe che state leggendo, questi due elementi, periferia ed esclusione, quando si ragiona di rock, dovrebbero sempre esser tenuti in primo piano, ad individuare il nucleo “originario” della questione. Se il rock è una forma d’arte e di vita, lo è nella misura esatta in cui essa è periferica e “minore”. Di una minorità che non aspira a farsi egemone ma che rimane in qualche modo eterodossa, dissonante, straniera anche a sé stessa. Che rimane, come direbbero gli Inglesi, outsider.
Ma chi o cosa è un outsider? Cedo volentieri la parola al grande saggista e romanziere britannico Colin Wilson, che in un suo omonimo studio giustamente leggendario (e tradotto anche nella nostra lingua) ci spiega che l’outsider è qualcuno che, in estrema sintesi, “is not sure who he is. He has found an “I”, but it is not his true “I”.’ His main business is to find his way back to himself.”
E che, aggiungiamo noi, attraverso la pratica sperimentale di un’”arte”, partendo da una situazione di negazione ed esclusione alienante del sé (per motivazioni sociali, economiche, culturali o razziali), perviene ad una ridefinizione/rifondazione pienamente affermativa della propria identità. Il rock, inteso come forma di teatro musicale popolare, con il suo precipitato di maschere, miti e biografie (re)inventate d’ogni risma, in fondo non ha fatto altro che questo: aiutare esclusi e marginali a diventare ciò che credevano di essere. Una truffa? Senza alcun dubbio. Ma una truffa che ha prodotto, spesso come effetto collaterale, verità.
L’ho pensato ascoltando in questi giorni i giovani bielorussi Molchat Doma (“Case Vuote”) che dalla loro Minsk, restando in tema di periferie reali e figurate, hanno ritessuto come in sogno le trame di un canto minimal dark-wave brutalista, (giunto al terzo disco, battente addirittura bandiera Sacred Bones), mirabilmente sospeso fra devozione amanuense ai testi sacri di Joy Division, Cure e Depeche Mode, e traduzione in operetta post-punk dei versi del giovane poeta post-sovietico, outsider per destino, Boris Ryzij (“sì, il cammino di eterno dolore,/alla tua casa natale, che si confonde col tramonto,/la solitudine, il sogno, le foglie cadute, /torni a casa come un soldato caduto in guerra”).
E lo stesso vale anche per Adam Byczkowski, in arte Better Person, altro promettete outsider polacco attualmente di stanza a Berlino, che giunge all’esordio Something to Lose dopo un bell’ep apparso quattro anni fa.
Cantato sia in polacco che in inglese, il disco di Better Person si perde, con amabile grazia e gusto spesso sopraffino per la melodia (Something To Lose, Zakochany Czlowiek, True Love, Close To You), fra i vicoli stretti di certa new wave più lirica in odor di Blue Nile, Everything But The Girl, Marc Almond, Associates e Aztec Camera (un plauso alla produzione di Ben Goldwasser degli MGMT).
Sfuggendo al facile calligrafismo, Byczkowski armonizza agrodolci, fragilissimi, melodrammi sentimentali, intrisi di un erotismo spesso platonico, che colpiscono l’orecchio e il cuore per l’alone di fascinazione magnetica che li ammanta, a rievocare l’eleganza immaginifica dei film di Kieslowski o del più recente Pawlikowski.
“Contrariamente a quanto si crede di solito, la periferia non è il luogo in cui finisce il mondo – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta.” Faccio mie in chiusura le parole di un premio Nobel (no, non Bon Dylan, ma il ben più rock Josif Brodskij) per celebrare la bellezza “periferica”, gloriosamente minore, di Better Person e Molchat Doma, outsider giovani e promettenti a cui il domani del rock non può che affidarsi con speranza.