Francesco Amoroso per TRISTE©
“You know that I’m a wanderer/
I fixate on uncertainty/
But everywhere I go, I carry you with me/
How’s it there in your hometown 10,000 miles across the sea/
Just hoping that you know/
you’re everything to me.”
Quando ero bambino rimasi terribilmente affascinato dalla storia di quel soldato giapponese cui, verso la fine della seconda guerra mondiale, era stato ordinato di ostacolare l’avanzata nemica su un piccolo atollo perso in mezzo al Pacifico e di non arrendersi, a costo della sua stessa vita. Non avendo più ricevuto alcun ordine o alcuna notizia, il soldato giapponese continuò a combattere, prima con alcuni commilitoni e poi da solo, fino al 1974 quando il suo diretto superiore si recò sull’isola per convincerlo ad arrendersi e lo riportò in Giappone, dove venne accolto con tutti gli onori dal governo del proprio paese.
Mi è tornata in mente questa storia che mi ha sempre risuonato nel cervello, ascoltando “Soloist”, il nuovo lavoro del musicista di Omaha Ben Eisemberger, che ho pescato, quasi per caso, tra le centinaia di segnalazioni e richieste di ascolto che ci giungono ininterrottamente.
Già dalla copertina e poi ascoltando le nove canzoni che compongono questo, che ho scoperto essere il secondo album del cantautore americano (il precedente esordio solista, “Three Islands”, è del 2018), ho provato la sensazione fortissima di trovarmi proiettato, all’improvviso, in un’altra epoca e in un altro luogo.
La voce di Eisenberger si muove da una tonalità alta che ricorda a tratti Paul Simon fino a registri più bassi e caldi, ma, in ogni caso, sembra sempre provenire dal passato.
Anche le sue composizioni arrivano direttamente dal Greenwich Village degli anni sessanta e basta ascoltare poche note della sua chitarra per trovarsi catapultati in uno di quei locali fumosi e un po’ tetri dove, grazie alle serate Open Mic, si esibivano giovani artisti di belle speranze provenienti da tutti gli Stati Uniti.
Brani come “Don’t Change Your Mind”, “Soloist” o “On And On” potrebbero fare parte della colonna sonora di “Inside Llewyn Davis” il film dei fratelli Coen sul folk dei sixties o, meglio, potrebbero essere tra le canzoni che l’hanno ispirato.
Non c’è traccia di modernità qui: il soldato del folk Ben Eisenberger combatte ancora con la divisa e l’armamentariod’epoca.
Gli arrangiamenti sono misuratissimi ed essenziali: giusto un tocco di pedal steel su “Don’t Change Your Mind” e “See You On The Other Side”, un delicato flauto ad arricchire la delizia strumentale “This Is It”, qualche violino a donare un afflato orchestrale a brani intensi come la meravigliosa “Brightest Star In The Night” o “Wide Open Spaces”, ma è sempre la vecchia chitarra acustica a comandare, suonata in maniera superba da Eisenberger che, non a caso, ha una formazione classica.
Tutte le canzoni suonano gentili, sentite, coinvolgenti e spesso si concludono con code strumentali elaborate e di grande raffinatezza e non è difficile trovare tra le loro note la quieta disperazione, il pathos e la malinconia che pervade ogni perfetta composizione folk. Solo la conclusiva “Johnny” si distacca in parte dalle sonorità che caratterizzano tutto il lavoro risultando, anche grazie alla presenza di un banjo e di armonie vocali femminili, più primitiva e country, strappandoci dalle cantine di mattoni rossi di New York e trasportandoci tra le montagne degli Appalachi.
Eisenberger non è ovviamente un soldato semplice dimenticato cui non sono mai arrivate notizie del mondo esterno, del progresso e (purtroppo?) della fine di un’epoca d’oro della musica folk, ma è un giovane cantante, musicista e compositore di grande talento che, del resto, suona anche in una band indie rock, in un ensemble di freem/improv music e, addirittura in un gruppo noise punk. La sua è, senza dubbio, una scelta stilistica e compositiva deliberata, consapevole e necessaria.
Eppure, proprio come il soldato giapponese riaccolto in patria dopo trent’anni dalla fine della guerra, anche a Ben dovrebbero essere tributati tutti gli onori dovuti a chi rifiuta di arrendersi a certa musica plastificata e senza sentimenti e alla novità fin a se stessa.
Quanto a me, in un’annata non troppo prolifica in fatto di cantautorato folk (soprattutto al maschile), non potevo non salutare con estrema gratitudine questo inaspettato e sorprendente colpo di coda di un genere musicale che continua a unire generazioni e luoghi lontanissimi.
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