Francesco Giordani per TRISTE©
“Come si fa a rendere lʼidea di tutte le tagliole e i banchetti, le vette e le trappole, di una vita difficile ma, a intermittenza, gioiosa come quella di Parker? Entri in scena, soffri e dai forma a qualcosa di talmente espressivo, dalla tecnica talmente feroce, dalla sensibilità emotiva talmente spiccata, che qualunque necessità di dilungarsi negli “ah, tra lʼaltro” delle note a piè di pagina scompare.”
Il “timbro” specifico di Ian Penman risuona già in tutta la sua lampante chiarezza nel titolo che il critico inglese ha scelto per questa sua seconda raccolta di saggi critici –e prima tradotta in Italia, per felice iniziativa di Atlantide, in 999 copie numerate. It gets me home, this curving track è infatti un musicalissimo verso del supremo poeta britannico Wystan Hugh Auden che tuttavia, come Penman stesso esplicita nella prefazione, può essere percorso anche in un senso sensibilmente divergente dal letterale: quella track potrebbe infatti rivelarsi il solco di un disco che gira e che, nel suo girare, scrive Penman, “ha davvero il potere di farci sentire in una specie di casa”. Quale altro critico musicale affiderebbe oggi la soglia di un suo libro al segreto ineffabile della poesia?
Ciò non deve tuttavia sorprenderci più di tanto visto che Penman non è per niente un critico musicale “normale”. Cresciuto negli anni Settanta sulle pagine del New Musical Express, l’Inglese fu infatti, nel pieno dell’era new wave e assieme al collega Paul Morley (se non avete ancora letto il suo memorabile Parole e Musica recuperatelo ad ogni costo, donerà ai vostri padiglioni auricolari superpoteri divinatori!), il principale artefice di una vera e propria rivoluzione copernicana nello “scrivere di musica”. Una rivoluzione innescata, come noto, da una miscela dinamitarda di semiotica, strutturalismo e teoria critica, i cui effetti appaiono oggi tutt’altro che diradati. Basta aprire a caso un qualunque titolo di Simon Reynolds o di Mark Fisher (tra i dedicatari peraltro del volume di Penman) per verificarlo.
Penman tende però a differenziarsi e non poco dai suoi eredi più o meno consapevoli. Un secondo distico audeniano, proveniente dalla medesima composizione prima citata (Walks, del 1958), ci aiuta a capirlo, assumendo il carattere di un’implicita quanto spontanea dichiarazione di metodo: the repetition it involves/raises a doubt it never solves. I peculiari “essays” (a bene vedere più nel senso di Montaigne che di un Barthes) confluiti in Mi porta a casa, questa curva strada preferiscono infatti il fascino degli enigmi insoluti alla certezza di risposte definitive o a priori, rinunciando senza sforzo a teorizzazioni e rigidi schematismi concettuali così tipici di tanta parte della critica culturale contemporanea più à la page.
Che si tratti di schizzare una genealogia dei Mod o di ingaggiare uno strenuo corpo a corpo ermeneutico-(auto)biografico con Prince, Penman lascia le sue parole libere di “girare” intorno alle tracce criticamente discusse, in un periplo infinito di suggestioni, risonanze e digressioni (di cui l’Inglese è maestro sopraffino) che si avvicinano al centro stesso della musica tanto più paiono allontanarsene. D’altra parte tutti gli otto scritti raccolti nel volume – tra i quali segnalo, per acutezza e perfezione cristallina di scrittura, i “medaglioni” dedicati a Charlie Parker, James Brown e Donald Fagen- prendono spunto quasi sempre da altri libri musicali, per lo più biografie, essendo apparsi negli anni su testate non esattamente “tematiche” come City Journal e London Review of Books. A detta di un non si sa quanto scherzoso Penman proprio queste pubblicazioni hanno gettato un provvidenziale salvagente ad un critico ormai “ad un passo dal mollare tutto e riqualificarsi come terapeuta felino”.
Per nostra fortuna ciò non è avvenuto e a leggere i saggi di Penman uno dopo l’altro, scivolando da John Fahey a Frank Sinatra (o viceversa) attraverso un passaggio illuminante di Michel Leiris o magari una bellissima poesia di Yves Bonnefoy, si resta spesso stupefatti dinanzi al disvelarsi, tanto lieve quanto perentorio, di qualcosa che non posso che definire “arte dell’ascolto”. Arte oggi quanto mai trascurata se non apertamente bistrattata e che pure ci riguarda tutti, intimamente, a maggior ragione se adesso ci troviamo qui a scrivere o a leggere di Penman, in un mondo in cui di colpo tutta la musica è immediatamente disponibile, vicinissima a noi e al tempo stesso distante come mai prima.
Sebbene sia difficile indicare, “teoricamente”, in cosa un’arte dell’ascolto possa oggi consistere, credo che nelle parole di un libro come Mi porta a casa, questa curva strada l’aspirante artista possa rintracciare esempi utilissimi su cui meditare e con i quali formarsi attivamente nell’ascolto di ciò che di unico la musica ha da rivelargli. Tuttavia, come detto, non troveremo roboanti programmi o ideologie nell’umanesimo gentile di Ian Penman, tuttalpiù una via o qualche sentiero poco battuto. Una curva strada. Seguendola, potremmo forse imparare l’arte di “abitare” in modo finalmente diverso, più attento -e qualcuno ha detto che “l’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima”-, la musica che amiamo.
Torniamo così, con un ultimo giro, alla nota da cui eravamo partiti.
Ian Penman
Mi porta a casa, questa curva strada
Traduzione di Luca Fusari
Atlantide
208 pp, 24 euro
Qui è possibile leggere prefazione e primo capitolo del libro.
Una playlist con tutti o gran parte dei pezzi citati da Penman nel libro:
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