Francesco Amoroso per TRISTE©
Qualcuno di voi ricorda come era bello avere le proprie etichette discografiche di riferimento? Acquistare e.p. e album a scatola chiusa solo perché sulla copertina era impresso quel piccolo marchio che era garanzia di qualità? Espandere le proprie conoscenze e crescere, musicalmente e umanamente, di pari passo con le nuove uscite della nostra label preferita? Io (purtroppo per me) lo ricordo bene.
Pur non essendo mai stato un collezionista, di alcune etichette acquistavo tutto quello che riuscivo a trovare, senza neanche farmi domande sul contenuto e, quasi sempre, non ne rimanevo deluso. La Creation, naturalmente, la Sarah, la Él Records, la 4AD…
Adoravo così tanto tutto quanto usciva su queste etichette che quando la 4AD diede vita (breve: dal 1992 al 1994) a una propria sussidiaria, la Guernica, acquistai anche tutti gli album che via via venivano rilasciati con quel marchio, nonostante i suoni contenuti tra quei solchi (in realtà era già l’epoca del cd) fossero decisamente poco convenzionali e non sempre immediati.
Unrest, Underground Lovers, Bettie Serveert, Spoonfed Hybrid, That Dog e Insides. Quasi tutte band che, ognuna a proprio modo, hanno lasciato un segno, per quanto piccolo, nella storia della musica indipendente degli anni novanta (nei That Dog. militavano le sorelle Rachel e Petra Haden, Spoonfed Hybrid era il progetto di Ian Masters dei Pale Saints e Chris Trout degli AC Temple…).
Due, però, sono stati gli album che, con il tempo, hanno guadagnato uno status (meritatissimo) di culto: “Spoonfed Hybrid” e “Euphoria” degl Insides.
Intorno a questo secondo album, che all’inizio mi aveva lasciato piuttosto interdetto e che ho poi cominciato ad amare di un amore fatto di fascinazione, rispetto e vago timore, è cresciuta una vera e propria leggenda dovuta, in parte, anche al successivo “suicidio commerciale” del duo artefice di quel lavoro.
J. Tardo e Kirsty Yates avevano rilasciato “Euphoria” come Insides, dopo aver prodotto per qualche anno musica con il nome di Earwig, e, nonostante il loro album su Guernica avesse riscosso grande consenso grazie a un suono davvero all’avanguardia per i tempi, nel quale l’elettronica si fondeva con le chitarre dei Durutti Column ad accompagnare la voce algida ed eterea di Yates, i due avevano deciso, l’anno successivo, di pubblicare un e.p. di un unico brano, della durata di 40 minuti, per poi scomparire nel nulla e tornare, quindici anni dopo, con “Sweet Tip”, un album di lounge e acid jazz in stile Nouvelle Vague piuttosto dimenticabile.
Una parabola artistica destinata all’oblio, non fosse che quell’ “Euphoria” era rimasto nel cuore e nelle orecchie di tanti e, per il Record Store Day del 2019, era stato ripubblicato (su vinile, naturalmente) dalla etichetta americana Beacon Sound.
Da allora si sono rincorse voci di un ritorno del duo di Brighton, ma nulla si era concretizzato, fino a quando, un po’ a sorpresa non è arrivato “Soft Bonds”.
Riprendendo le sonorità delicatamente sospese e e carezzevoli del magnifico esordio, rese calde dalla voce languida e placida di Kirsty Yates e dalla produzione accurata e minimalista di J. Tardo, “Soft Bonds” riallaccia, dopo quasi 38 anni, proprio quei soffici legami che mi avvincevano a “Euphoria”. “It Was Like This Once, It Will Be Like This Again”, il titolo del brano di apertura, del resto, la dice lunga.
Se nel 1993 le idee di Tardo e Yates erano avanti anni luce, a “Soft Bonds” che, senza tentare un banale riciclo di quelle sonorità, le riprende e le ripropone aggiornandole e arricchendole, si deve riconosce una sorta di atemporalità.
Il loro minimalismo elettronico, che rimanda a tratti ai To Rococo Rot (“Ghost Music”) e che è stato ripreso, più o meno consciamente, da band come i Lamb di Lou Rodhes prima e da tantissimi poi, in questo lungo lasso di tempo che ci separa dall’esordio, si muove tra scarne costruzioni elettro-pop, sinuoso e glaciale synth-pop (“Misericord”), passaggi intrisi di inqueta sensualità (“The Softest Bonds Resistence”), e momenti più articolati e (per quanto sempre minimali in maniera quasi intransigente) avanguardistici, (“Subordinate”), caratterizzati da sonorità più sfumate e semi-acustiche (“Thin Skin”, “Half Past 4” e “Undressing”).
Le parole di Kirsty, pronunciate con le labbra attaccate al microfono, escono come sussurri, confidenze, segreti. Raccontano di sentimenti intimi e di sensazioni e idee inconfessabili, sono un flusso intimo, pagine di un diario non destinato a essere letto da nessuno.
Il suono degli Insides è diafano e ipnotico, una delicatessen da assaporare lentamente.
Lo si potrebbe definire Dreampop minimalista, ma “Soft Bonds” ha un suono che deve la sua efficacia e profondità tanto alle note che ai silenzi, alle pause, allo spazio, all’aria immota di cui è composto.
È un suono che rallenta il battito cardiaco fino quasi a fermarlo, che ci permette, anzi ci impone, di fermarci e di ascoltare.
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