The Antlers – Green To Gold

Francesco Amoroso  per TRISTE©

Per chi, come me (ma, probabilmente, anche come te, che stai leggendo), ama la musica in maniera viscerale e incondizionata, il tempo per fermarsi e assaporare un album (ma spesso anche una sola canzone) non è mai abbastanza.
Mi trovo travolto dalle mille attività di una giornata: il lavoro, la casa, la famiglia, gli amici, un po’ di film o serie tv, quando c’è tempo, la lettura di un romanzo. Magari finisco per ritrovarmi a fine giornata e mi rendo conto di non aver avuto neanche un momento per godermi un po’ di musica in santa pace.

Allora, come unica alternativa, mi adatto ad ascoltare musica – con auricolari di qualità spesso discutibile e attraverso lo smartphone – distrattamente mentre faccio altro, in cucina, negli spostamenti, a lavoro, mentre mangio…
Ma, costretto a optare per questa scelta, è inevitabile che molto di quello che ascolto vada perduto, confuso nel rumore quotidiano, sommerso dalle chiacchiere, dai clacson, dal ronzio degli elettrodomestici, dalle interruzioni del telefono che squilla, inesorabile, al momento sbagliato.
E quello che mi rimane, sempre che mi rimanga qualcosa, è solo qualche brandello, un passaggio particolarmente impellente, una canzone immediatamente orecchiabile, un cantato subito riconoscibile.

L’oblio è il destino di tutto ciò che non mi colpisce istantaneamente, di tanta musica che, probabilmente, avrebbe bisogno di tempo per essere davvero compresa e introiettata. Di tempo e di spazio, fisico e mentale.

La prima volta che ho ascoltato “Green To Gold”, il nuovo album di The Antlers, e anche per molte altre volte dopo la prima, quando sono arrivato alla fine, mi sono chiesto dove erano andate a finire le canzoni, se la band che avevo appena sentito era la stessa che aveva scritto un capolavoro come “Hospice” e lavori così personali e struggenti come “Burst Apart” e “Familiars”.
In più di un’ occasione mi sono anche chiesto se non avessi sbagliato a taggare i file e non stessi ascoltando altro.

Mi sono chiesto anche come mai, per scrivere canzoni semplici e leggere come le dieci che compongono il loro quinto album, la band avesse impiegato ben sette anni.
Dopo sette anni ci si aspetta qualcosa di diverso, strutture complesse, arrangiamenti lussureggianti, brani dal coinvolgimento emotivo insostenibile (soprattutto da chi, come The Antlers, aveva sempre affrontato, nelle proprie canzoni, argomenti dolorosissimi e spesso devastanti).

Dopo qualche ascolto disattento e superficiale mi apprestavo a passare oltre, quando è successo qualcosa.
Una domenica mattina ho ascoltato, casualmente, mentre facevo la doccia, un delicato motivo di chitarra, una voce esile e carezzevole e mi sono accorto che era la title track dell’album, “Green To Gold”. Mi sono stupito, quasi la sentissi per la prima volta, e ho deciso di proseguire l’ascolto dell’album. Solo in questo modo sono riuscito a connettermi con queste canzoni, esili, semplici, scevre da qualsiasi sovrastruttura che si muovono austere e calde, tra i solchi della tradizione popolare. Alla fine, poi, come una rivelazione, mi sono reso conto che conoscevo già ogni brano, che ogni passaggio si era, anche solamente con pochi ascolti disattenti, insinuato e nascosto in qualche piega del mio cervello, in attesa di essere ripescato e riascoltato al momento giusto.

Per “Green To Gold” la band di Brooklyn capitanata da Peter Silberman ha deciso di lavorare in sottrazione, avvalendosi quasi esclusivamente di strumentazione acustica, evitando gli arrangiamenti elettronici, il post rock, lo space rock e i passaggi jazzati, dei lavori precedenti e riducendo all’osso anche le melodie vocali.
Così, dopo ripetuti ascolti, queste canzoni malinconiche, a prima vista gracili e senza pretese , accompagnate da delicati motivi di chitarra e sussurrate dall’esile voce di Peter Silberman, sono riuscite a sedurmi e a entrarmi in testa, senza che quasi me ne accorgessi.

Solo successivamente, ormai sedotto, ho scoperto che dietro questa scelta, questo cambio di rotta, esistevano ragioni anche pratiche: soffrendo di acufene, lesioni vocali e stanchezza fisica, Silberman è stato costretto a mettere da parte gli Antlers, a dedicarsi al giardinaggio e alla meditazione e a incidere un album solista, Impermanence, che si avvicinava molto alla musica ambientale. “Green to Gold” è il risultato di tutto questo e della ritrovata pace di un artista fino ad oggi tormentatissimo.
Leggere la sua affermazione di aver “deciso di fare musica per la domenica mattina” mi ha colpito profondamente, visto che ci è voluta proprio una domenica mattina perché questa musica mi si svelasse definitivamente.

Sonorità rilassate, canzoni semplici, parole sussurrate è vero, ma composizioni sopraffine e di bellezza devastante, come “Wheels Roll Home” e “Solstice”, la distesa “Porchlight” o “It Is What It Is”, nelle quali la voce di Silberman non si inerpica nel suo classico lacerante falsetto, ma, piuttosto, sale passo passo, quieta, serena e avvolgente.
“Green To Gold” è costruito su chitarre slide e a 12 corde, sassofoni, pianoforte, batteria spazzolata e field recordings che si affacciano timidamente alla fine dei brani, quasi che l’album sia stato registrato in un giardino, o al limitare di un bosco in una prima mattina assolata, mentre ancora la brina dell’alba si sta sciogliendo e la natura sonnolenta torna alla vita.

Non è nulla di ciò che mi sarei aspettato da Silberman e dagli Antlers, ma è probabilmente tutto ciò che potevo sperare di ascoltare da un artista che ha visto (e ha cantato) l’abisso da molto vicino e che, invece di finirci dentro, si è ritrovato sano e salvo. O, più probabilmente, dopo esserci finito dentro, è riuscito a uscirne fuori, accettandone l’esitenza e superandolo.
La pacatezza e la dedizione che trovo in queste note non sono il simbolo di una resa, ma la prova tangibile di una rinascita: Silberman sta comunicando che, per vivere bene (o anche solo per vivere) non si deve scappare dalla realtà – per quanto la tentazione possa essere forte (“For just one sec, free me from me”) canta in “For Just One Sec”- ma che, per quanto difficile possa risultare, si devono fare i conti con essa e la si deve abbracciare con coraggio.
La luce in fondo al tunnel, specialmente se va dal verde all’oro, non è sempre quella di un treno che sta arrivando.

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