
Francesco Giordani per TRISTE©
Hey, kid, now you’re part of a team
In a new kind of a colourful dream and there’s
A whole world in the palm of your hand
‘Cause a dreamer gives what a dreamer can
And you feel a force ten coming on strong
And a strong sense that it can’t go wrong
And it’s a fine line, but you’re getting it right
On the first day of the rest of your life
Canta così il dublinese Conor O’Brien in The First Day, sontuoso, a tratti abbacinante, vestibolo sonoro messo a guardia del suo quinto opus discrografico, Fever Dreams, che esce in questi giorni per Domino. Ti senti come un fiocco di neve, come un lampo di luce, come una pioggia leggera, come una dolce rima, prosegue l’Irlandese, nel primo giorno della vita che ti rimane, alla lettera. E proprio mentre, guardandosi attorno, non si può evitare di convenire con un simile, poeticissimo (e in fondo così irlandese) dettato, ecco che ci si accorge che O’Brien ci ha elegantemente messi spalle al muro anche stavolta. Quattro minuti appena gli sono stati sufficienti.
Fever Dreams arriva a tre anni dal pittoresco bricolage elettro-folk del precedente, assai visionario, The Art of Pretending To Swim. O’Brien lo presenta così: “I had an urge to write something that was as generous to the listener as it was to myself. Sometimes the most delirious states can produce the most ecstatic, euphoric and escapist dreams.” In queste poche ma incisive parole viene espresso tutto quel che c’è da sapere su un album da ascoltare e riascoltare senza il minimo timore di smarrirsi. Partendo magari dall’idillio So Simpatico, canzone indubbiamente fra le più belle ascoltate quest’anno e già sicuro evergreen di un repertorio che certo non difetta di ganci memorabili. Ma non meno sorprendenti si rivelano i sei minuti infuocati dell’esorcismo Circles in The Firing Line, durante i quali accade letteralmente di tutto –fra filastrocche barrettiane e improvvise vampe di fosforo psych-rock- che fanno tutt’uno con le oniriche ma cullanti vertigini melodiche di Momentairly e quelle, un pelo più ripide, della bellissima Restless Endeavour.
La favola metafisica cantata da O’Brien si snoda con ineffabile grazia lungo il sottilissimo confine che separa il sogno dalla veglia, non per niente alcuni hanno azzardato paralleli con David Lynch o i Tame Impala, sebbene l’interessato citi più volentieri il Libro Rosso di Carl Gustav Jung e l’orchestra di Duke Ellington.
Tutt’altro che onirica rimane ad ogni modo la grandezza di questo golden boy (oramai fattosi uomo) della canzone contemporanea, erede degnissimo di Bacharach e Cohen, bardo riluttante inviatoci dalla Provvidenza (“And full faith in providence/ Best not to dwell/ Full faith in providence/ Tread well”, si dice in Full Faith in Providence), per ricordarci, semmai ce ne fosse il bisogno, la prima e ultima verità: quello che stiamo vivendo è il primo giorno del resto della nostra vita.
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