
Francesco Amoroso per TRISTE©
La categoria dei cosiddetti Break-Up Albums, gli album che sono ispirati e che parlano della fine di un rapporto amoroso, è affollatissima ed eterogenea.
Praticamente chiunque si è cimentato nello scrivere un album che racconti di abbandoni, separazioni forzate, perdite dell’amore e fine di una relazione.
In rete si trovano decine di classifiche dei migliori “break-up albums” di sempre e ci si possono trovare Frank Sinatra e i Radiohead, Lorde e Bruce Springsteen, Adele e Nick Cave, addirittura gli Slowdive (anche se il più gettonato rimane Rumors dei Fleetwood Mac).
Sembra, insomma che, quale che sia il tuo genere di musica di riferimento, devi, in carriera, scrivere almeno un album sulla fine della tua relazione. ma non è difficile: si sa che gli artisti hanno vite sentimentali di solito burrascose (ad eccezione, forse, di Robert Smith dei Cure, che sta con Mary da quando era ragazzino, eppure, con Disintegration, magari scritto in un momento di crisi del rapporto, è riuscito anche lui a entrare nella categoria dei break-up albums).
Se ne deve dedurre, quindi, che la fine di una relazione sia un argomento trito e ormai fin troppo sfruttato? Potrei propendere per una risposta positiva, se non fosse per l’uscita, recentissima, del secondo lavoro dell’artista chicagoana Tasha, Tell Me What You Miss The Most.
L’approccio alla materia di Tasha Viets-VanLear (questo il suo nome completo), infatti, è originale e peculiare sin dal titolo: invece di soffermarsi sul dolore che la fine di una relazione inevitabilmente provoca, Tasha preferisce ricordare i momenti di felicità, i fugaci attimi in cui l’amore è riuscito ad allontanarti dal fardello della quotidianità. Ci sono sensazioni che arrivano prima dei litigi, prima delle amarezze, prima del dolore, a volte lancinante, e Tasha sente che ricordarle sia un necessario passaggio nel processo di guarigione, anche se il dolore che certi ricordi portano può essere difficile da sopportare.
Tell Me What You Miss the Most è, così, un break-up album per certi versi anomalo, quasi del tutto privo di disperazione e rabbia, ma inevitabilmente malinconico e struggente, un’analisi meticolosa e romantica su una relazione che, per quanto possa essere finita, ha regalato momenti felici ed è stata motivo di crescita e rinnovamento interiore.
Ma la sua peculiarità non finisce qui: prese singolarmente le dieci canzoni che compongono l’album riescono ad essere a tratti anche gioiose e piene di luce, mentre è l’opera nel suo insieme a raccontare una storia con un finale doloroso.
E’ il brano di apertura, Bed Song 1, con la chitarra acustica e gli archi che esaltano la voce carezzevole e delicata di Tasha, a dare il tono a tutto l’album: “Hey I dare you / Tell me what you miss the most / Is it naps in sandy beds, brown bodies close? / Let’s try once more / Give me one warm August night / In that blue dark we’ll forget to cry and fight“. Se è chiara la tristezza, è altrettanto evidente il piacere del ricordo.
Il convivere di gioia e dolore è ancora più evidente in Perfect Wife, il brano più pop e allegro del lotto, una delizia con tanto di assolo di chitarra, batteria insistente e arrangiamenti elegantissimi – che mi fanno venire in mente, ogni volta, le sonorità di certo soul inglese dei primi anni ottanta (Working Week, Carmel, Style Council) – che non sembra affatto una canzone triste: “Let’s find some place we can go out and dance / You wear your hair down, I’ll wear my favorite pants / On the floor I’ll be stunned every time / Truth is darling you’re such a perfect wife.”
A prima vista è un brano che racconta le gioie del matrimonio, eppure, inserita nell’arco narrativo dell’album, è chiaro come dia voce a una pura illusione, a un desiderio che, oramai, non si avvererà.
Anche in un brano così uptempo, è la favolosa e malinconica voce di Tasha a fare la differenza e a convogliare i malinconici sentimenti che si nascondono dietro l’apparente allegria.
La voce di Tasha è magnifica: scintilla quando l’accompagnamento è ridotto all’osso e la chitarra acustica, sia che ripeta pochi accordi (come nell’introduttiva Bed Song 1) o che sia suonata con un articolato fingerpicking (Burton Island), è il perfetto sottofondo sul quale adagiarla, vibrante, ariosa, cristallina. Non è difficile, così, immaginarla da sola in una stanza, con la sua chitarra, mentre ricorda un passato luminoso con malinconia, ma senza disperazione.
E anche nei passaggi più articolati e dagli arrangiamenti più curati, le canzoni fragili della musicista di Chicago riescono a esaltare questa voce affascinante e calda, come nella magnifica e nostalgica Lake Superior (“Every lake reminds me of another I’ve swam before”), nella quale – sarà una mia suggestione – trovo i toni degli Everything But The Girl di Baby The Stars Shine Bright, nell’andamento quasi baroque-pop di Dream Still (“We’ll make up, of course we’ll kiss, and you’ll whisper to me, ‘All I need is this’ / And spring will come, so warm at last, and the worst of it all will have surely passed“), in History, con il suo riuscitissimo arrangiamento folk-rock o in Sorry Is Not Enough che vede la sezione ritmica in grandissimo spolvero.
Tell Me What You Miss the Most riesce così a essere un album folk nudo e immediato (in un modo che ricorda a tratti Pink Moon – nonostante le abissali distanze di latitudine, di tempo, di genere (Bed Song 2) – e, insieme, un lavoro che tratta il soul e il pop con un tocco personale e imprevedibile, elegante ma mai artificioso, un lavoro con il quale Tasha riesce a trasmettere tutta la propria vulnerabilità e la sua forza di volontà.
Un’affermazione di talento, coraggio e personalità che la colloca tra le voci più interessanti di una generazione di artiste che non ha più alcuna intenzione di lasciarsi relegare in una nicchia musicale, ma che è pronta a mettersi continuamente in discussione pur di trasmettere tutto quello che ha dentro di sé.
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