Francesco Amoroso per TRISTE©
Fili neri di pioppi – fili neri di nubi/ sul cielo rosso –
e questa prima erba/ libera dalla neve/ chiara/
che fa pensare alla primavera/ e guardare/
se ad una svolta/ nascono le primule –
Ma il ghiaccio inazzurra i sentieri –
la nebbia addormenta i fossati –
un lento pallore devasta/ i colori del cielo –
Scende la notte – nessun fiore è nato –
è inverno – anima – è inverno.
(A. Pozzi, 1932)
Le canzoni e gli album che le contengono hanno una vita propria.
Appena vengono rilasciati nel mondo non appartengono più ai loro artefici ma diventano patrimonio di tutti e ognuno è libero di fare di loro ciò che vuole, di riempirli di significato, di usarli a proprio piacimento, di interpretarli come ritiene opportuno.
A volte una canzone o un disco vivono più vite anche per lo stesso ascoltatore. A volte accompagnano momenti significativi dell’esistenza e a volte sono essi stessi i momenti significativi di una vita.
Capita addirittura che, spontaneamente e apparentemente senza un reale motivo, riescano a sprigionare tutti i loro sentori, il loro senso, solo quando s’incontrano con altre forme d’arte, con le quali a prima vista possono anche non spartire nulla.
Ascolto il nuovo EP (troppo breve, lo dico subito) di James Leesley, in arte Studio Electrophonique, da qualche tempo ormai – anche se l’uscita ufficiale risale solo alla scorsa settimana – e le cinque canzoni che lo compongono mi entrano subito sottopelle, senza alcuno sforzo apparente.
Il fatto che conosca e ami il suo autore già dai tempi dell’esordio con il magnifico elp (anche lui troppo breve, tutto sommato) Buxton Palace Hotel deve essermi stato certamente d’aiuto, ma non è l’elemento decisivo perché Happier Things EP divenga immediatamente uno di quei lavori che sembrano cuciti addosso su misura.
La sensazione provata già dopo un ascolto – e ribadita nel corso del tempo – è dovuta principalmente, ne sono certo, a qualcosa che ha a che fare con il modo di sentire (e, quindi, di comunicare) di Leesley, con il suo essere così schivo, eppure così spietatamente sincero, con la sua malinconia priva di qualsiasi filtro e, nello stesso tempo, che non tenta mai di imporsi, di forzare le lacrime, di diventare invece di uno spontaneo moto dell’animo, un vuoto atteggiamento esteriore.
Queste sensazioni sono state immediate, dicevo, e non c’è voluta alcuna mediazione intellettuale perché fossero veicolate nella mia mente (o nel mio cuore, non saprei mai dire con precisione). Eppure qualcosa di più è scattato quando, poco fa, mentre ascoltavo per la milionesima volta Happier Things, il brano che apre la breve raccolta, mi è capitato (a causa del luogo in cui mi trovo in questo momento e per una serie di ragioni che non sto a spiegare, anche se forse potrebbero avere una loro intrinseca poeticità) di rileggere un componimento di Antonia Pozzi, poetessa milanese della prima metà del novecento, scomparsa a soli ventisei anni.
E’ scattato qualcosa perché Inverno, la poesia che ho riportato in esergo, contiene in sé una malinconia dolce e piena di pudore, una tristezza cauta, quasi imbarazzata e, insieme, riesce a raccontare questa tristezza con immagini di bellezza assoluta.
Mi sono reso conto che ciò che rende (per me, ma sono certo che sia un sentimento condivisibile da tanti) così speciali le canzoni di Studio Electrophonique è esattamente la stessa pudibonda tristezza, la stessa malinconia che assume una grazia e una leggiadria tali da sfumare in immagini di straziante tenerezza.
“I get up in the night just to see if you’re there and to check if you still feel alone. I could slip on the stairs just to see if you care but I guess that I already know. So I get back in bed and try and think of happier things. But I can never do it. It’s not the same when you have to stop to show me how to do it. Can we start again? I remember a time when the mornings were kind and my manager was on my side. I could finish at two just to linger for you and to ask you if your shift was nice. And all this seemed so far away then. I hope your heart’s wrong and was all along. I thought this only happened to them not lovers like us. I guess that it does. So I get back in bed and try and think of happier things. But I can never do it. It’s not the same when you have to stop to show me how to do it. Shall we leave it there?“
Componimenti poetici che probabilmente, lo ammetto, nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro: non l’argomento né il tono – lirico il primo, più prosaico il secondo – ma che condividono un sentimento di fondo che li accomuna e me li rende allo stesso modo cari.
Così come Pozzi si illude dell’arrivo della primavera, pur sapendo che è solo la prima neve che si scioglie e che l’inverno (climatico o dell’anima poco importa) sarà ancora lungo, Leesley, anche se conosce la risposta, si chiede nel mezzo dell’oscurità “Can we have a night like it used to be? Can’t you just want me?” e poi aspetta con pazienza che il sentimento si plachi, ma sa che attendere non funziona (“I was waiting for the feeling to fade, but it never does“) e, allora si dice “if I loved you less“, ma non può che pensare solo a lei quando piove. Cose più felici, allora.
Ma non divaghiamo: se ho probabilmente usufruito di una di quelle piccole epifanie che possono essere portate solo dall’accidente, è comunque il caso di riannodare il filo del discorso e raccontare di come l’arte di James Leesley sia fatta di canzoni semplici, fragili e diafane, scritte con un tratto sottile, quasi sbiadito, che nascono e si nutrono di quotidianità e di quotidiane difficoltà e gioie, di composte speranze e disperazioni. Canzoni che sembrano sbriciolarsi a un semplice tocco, e che richiedono, a maggior ragione, una particolare cura e attenzione.
Probabilmente il risultato è dovuto anche alle scelte stilistiche di Leesley, che ha deciso di registrare questi brani – così come aveva fatto per quelli di Buxton Palace Hotel – su una vecchia macchina a quattro tracce che non gli permette di adornare troppo le proprie composizioni, lasciandole quasi nude davanti all’occhio (meglio: all’orecchio) del fruitore, tanto che l’ascoltatore si scopre quasi un voyeur: l’intimità di queste canzoni è tale che anche solo a prestare l’orecchio ci si potrebbe scoprire troppo invadenti.
Canzoni pure, quindi, senza fronzoli, senza astruse trovate sonore, note che vengono sganciate con attenzione e cura, quasi come piccole bombe intelligenti e che, come bombe intelligenti, rischiano di essere devastanti.
Canzoni dedicate agli affanni e alla fine dell’amore, che vivono di silenzi e spazi così come di suoni e parole. Melodie sottilissime e persistenti che, con una variazione minima, possono straziare o elevare, e una voce sussurrata e senza peso.
Di se stesso, o, per essere precisi e non confondere l’artista con la sua arte, di Studio Electrophonique, James dice che si tratta di “un collettivo semi-immaginario di romantici analogici inviati per rassicurarci sul fatto che l’arte non è un posto lontano” e, anche in questa descrizione il musicista di Sheffield dimostra che le sue canzoni all’apparenza quasi fortuite, sono, in realtà frutto di scelte attentamente ponderate e di una poetica di fondo che è ben lungi dall’essere inerme ed esposta come i brani che da essa scaturiscono.
James Leesley (così come faceva con le sue poesie Antonia Pozzi che, tuttavia, alla tristezza ha poi tragicamente ceduto -ma erano altri tempi e altri luoghi, mi auguro) ci dice, con le sue canzoni, che la tristezza può essere goduta come la felicità e che entrambe le sensazioni possono regalare momenti di assoluta bellezza.
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