Francesco Amoroso per TRISTE©
Uno dei miei primissimi ricordi di musica “altra” ha a che vedere con un paio di videoclip (così si chiamavano all’epoca), probabilmente trasmessi su Videomusic nell’inverno del 1984 o all’inizio del 1985, il cui protagonista era un tipo buffo, con occhiali smisurati e un aspetto decisamente lontano da quello delle popstar del momento (c’erano i Duran Duran, gli Spandau Ballet, gli Wham, tutti belloni di cui le ragazzine erano innamorate).
Le canzoni mi erano sembrate secondarie, in quel momento, come una specie di contorno alle gag travolgenti del cantante occhialuto, un commento sonoro che mi pareva, allora, divertente ma trascurabile.
Mai avrei immaginato, a quattordici anni, che il tipo buffo avrebbe accompagnato tutta la mia vita, da allora, riempendola di musica straordinaria e di canzoni indimenticabili. Elvis Costello potrà non essere l’idolo assoluto di nessun appassionato di musica (troppo fuori dagli schemi, troppo poco catalogabile, non abbastanza romantico né sufficientemente maledetto) ma chiunque abbia seguito la musica alternativa dalla fine degli anni settanta non può fare a meno di conoscerlo e apprezzarlo. Anzi non può proprio permettersi di non amarlo.
Quelle due canzoni (I Wanna Be Loved da Goodbye Cruel World e Everyday I Write The Book da Punch The Clock) sono state solo le prime di una lunghissima relazione nella quale Costello è stato un vero e proprio trascinatore: ogni volta che cominciavo a distrarmi e a guardarmi in giro, a pensare che il nostro rapporto stesse perdendo slancio, che le sue canzoni non mi emozionassero più come una volta, lui tirava fuori dal cilindro un capolavoro (maggiore o minore che fosse) e mi teneva avvinto a sé, alla sua voce così unica, al suo saltellare da un genere all’altro senza posa, ai suoi testi sempre intelligenti (e spesso geniali).
Dopo quarantacinque anni di attività e un inizio di nuovo millennio nel quale il nostro sembrava aver perso un po’ di smalto (è pur sempre un boomer del 1954, non dimentichiamolo), Elvis Costello ha deciso che era giunto il momento di rivitalizzare la nostra relazione e, benché con il suo (nostro) passato potesse tranquillamente permettersi di continuare a farmi vivere di ricordi (e che ricordi!), ha sfornato nel giro di tre anni quelli che senza dubbio sono i suoi tre migliori lavori degli anni 2000. Prima, con Look Now del 2018, ha rispolverato la collaborazione con Burt Bacharach, e poi, con Hey Clockface di due anni fa, inciso tra Helsinki, Parigi e New York, ha dimostrato di essere ancora in grado di scrivere magnifiche canzoni pop, stimolanti intellettualmente e capaci di farci dimenare (magari ormai seduti sul divano).
Erano vent’anni circa (da North del 2003, più o meno) che non aspettavo con trepidazione un’uscita del mio Elvis, quasi che, tanto per continuare la banale metafora coniugale, avessi cominciato a darlo per scontato e a credere che non avrebbe più potuto farmi rivivere le emozioni del passato, e, invece, anche grazie ai due ultimi lavori, per The Boy Named If nutrivo molte aspettative.
Aspettative che, non solo non sono andate deluse, ma che sono state di gran lunga superate dai tredici brani che compongono l’ennesima opera (sono almeno una trentina gli album ufficiali) di questo arzillo sessantottenne che, oltre alla salute (dopo i seri problemi dello scorso decennio), sembra aver davvero ritrovato la verve degli anni d’oro.
E proprio a quegli anni d’oro si rifanno le sonorità del nuovo album: The Boy Named If è caratterizzato da un’irruenza quasi rock’n’roll, da una grande freschezza compositiva e dalla brillantezza dei suoi album migliori. Con l’aiuto di molti dei suoi fidi collaboratori (stavolta la formazione è quella degli Imposters) Costello riesce a mettere insieme una scaletta di brani immediati e immediatamente riconoscibili, rinnovando in molte occasioni la magia e l’impeto delle sue opere giovanili, senza per questo risultare poco credibile, facendo, anzi, riemergere la sua maestria nel creare melodie indimenticabili.
Bastano poche note di ogni brano di The Boy Named If per farci capire che si tratta di canzoni di Elvis Costello. E l’autocitazione non è affatto fine a se stessa: Costello non si limita a autocelebrarsi o a imitare se stesso, ma dona nuovo vigore e inventiva alle sue composizioni, che risultano, così, vitali e sincere. E se non bastasse la rinnovata vena musicale, ad arricchire di contenuti l’album ci pensa il concetto che ne informa la narrazione: il ragazzo chiamato “If” del titolo sarebbe l’amico immaginario dell’Elvis bambino, colui il quale ha accompagnato il piccolo verso l’età adulta (nella costosa limited edition ci sono tredici racconti illustrati, uno per ogni brano, contenuti in un libro di 88 pagine).
Il Buddy Holly del punk (definizione dovuta forse a questioni di look e anagrafiche, visto che Elvis con il punk vero e proprio ha sempre avuto poco a che fare) ritorna prepotente nell’iniziale Farewell, OK , così come nella successiva Magnificent Hurt o nella contagiosa e deliziosa Mistook Me For A Friend, brani nei quali è possibile ritrovare anche i toni aspri e incisivi del cantato, ma non mancano passaggi più compassati come la romanticissima Paint The Red Rose Blue, la più articolata The Death Of Magic Thinking, My Most Beautiful Mistake, con la partecipazione di Nicole Atkins, o la ballata conclusiva Mr. Crescent.
Le canzoni che però più mi fanno esultare e mi convincono che Elvis Costello non abbia nel tempo perso un briciolo del suo talento unico e sia ancora un autore in grande forma sono The Difference, un brano pop senza tempo che si potrebbe descrivere solo come una canzone “a la Elvis Costello” e la divertentissima Penelope Halfpenny (un altro personaggio femminile indimenticabile, dopo Alison e Veronica).
Che Elvis Costello fosse un maestro indiscusso di quella che (a torto) da queste parti chiamiamo musica leggera, non credo sussistesse alcun dubbio, ma che, a sessantotto anni suonati e dopo trentadue album in studio (così dicono, ma io ho perso il conto), potesse ancora mostrare con le sue canzoni tanta grinta, delicatezza, arguzia e ispirazione, forse non se lo sarebbe aspettato neanche il fan più accanito.
Mi ricordo benissimo la divertita sensazione di straniamento e d’incredulità che provavo, appena adolescente, di fronte a quel tipo strano che, in primissimo piano, cantava disperato e riceveva baci appassionati da uomini e donne o che si esibiva con la band, accompagnato da due coriste vestite con abiti africani (interrotto da spezzoni che mostravano i sosia di Carlo e Diana, lui che fa le faccende domestiche e lei che guarda vecchi film in tv).
In The Boy Named If riconosco quell’uomo, nonostante gli anni che si sono affastellati sulle sue (e sulle mie) spalle, nonostante le rughe, nonostante il prezzo che, come tutti, ha dovuto pagare alla vita. Lo riconosco e ne riconosco la sincerità e l’immenso talento. E tanto mi basta.
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