Francesco Amoroso per TRISTE©
Credete sia possibile scindere l’arte dall’artista che la crea? Che si possa ammirare un dipinto di Picasso pur conoscendone il suo atteggiamento nei confronti delle donne? Che si possa continuare ad adorare l’opera degli Smiths, pur consci delle posizioni politiche prese da Morrissey negli anni più recenti? Che si possa continuare a considerare Kevin Spacey un grande attore, nonostante le accuse molto gravi che gli sono state rivolte?
L’operazione di separare il prodotto artistico dal suo produttore è diventata, negli ultimi anni, sempre più complessa e rileggere l’opera di un artista alla luce delle mancanze e dei difetti del suo autore sembra ormai quasi una necessità (non è neanche infrequente leggere che questo o quel musicista rock fosse un grande artista NONOSTANTE facesse uso di droghe…).
Non è facile prendere una posizione netta su questa questione e mi capita sempre più spesso di sentirmi in difficoltà ad apprezzare l’opera di qualcuno che umanamente detesto.
Per fortuna, poi, esistono artisti come Barzin.
Sì, perché con il canadese Barzin Hosseini (questo il suo nome completo) il problema non si pone. Si potrebbe sostenere, anzi, che la sua personalità traspaia perfettamente dalla sua opera.
Per spiegarmi meglio azzardo un aneddoto personale: il 14 novembre 2008 ascoltai un magnifico concerto di Barzin in un teatro di Castellon de la Plana, in occasione del festival Tanned Tin. Alla fine, dietro le quinte, l’artista canadese si intrattenne con un certo numero di appassionati, scambiando qualche parola in relax, anche bevendo qualcosa insieme, se non ricordo male. Naturalmente mi presentai – avevo adorato la sua musica sin dalle primissime uscite e il suo album My Life In Rooms era tra i miei preferiti di quegli anni – e parlai anche io con lui, brevemente, raccontandogli come avevo scoperto la sua musica (sono passati solo quattordici anni, ma in termini di diffusione e fruibilità della musica si tratta di un paio di ere), quanto avevo amato la sua performance e come le sue canzoni fossero importanti per me. Lui fu gentilissimo e disponibile, caloroso e anche lusingato, oserei dire, ma era chiaro che fosse alquanto timido e riservato.
Il giorno dopo, mentre facevo colazione in un bar nei dintorni del teatro, mi resi conto che, qualche tavolo più avanti, c’era proprio Barzin con i suoi musicisti. Non pensai neanche un momento di andarlo di nuovo a disturbare e, così, rimasi seduto e proseguì la mia colazione, senonché, pochi minuti più tardi, mentre mi trovavo con la faccia immersa in una tortilla, mi sentii chiamare: “Francesco, how are you?“.
Era Barzin che non solo mi aveva riconosciuto e mi salutava uscendo dal locale, ma si ricordava il mio nome, nonostante la sera prima fossi stato solo uno dei tanti che avevano scambiato con lui qualche parola dopo il concerto.
Potrei sbagliare, ma credo che questo banale aneddoto personale possa spiegare Barzin e la sua musica tanto quanto un’analisi approfondita dei suoi lavori.
Tuttavia, visto che siamo qui a parlare di musica e non di ricordi personali e relazioni umane (ma forse un po’ sì, visto il modo che abbiamo di rapportarci alla musica), la cosa che più conta è che, dopo nove lunghi anni, Barzin è tornato con un nuovo album, Voyeurs In The Dark, e che questo suo nuovo lavoro, tanto atteso (e troppo breve: solo 30 minuti per sette canzoni e quattro intermezzi) è molto diverso dai suoi album precedenti e, allo stesso tempo, è perfettamente in linea con la sua poetica e le sue sonorità.
Nel suo quinto album il compositore e poeta canadese (con le prime copie dell’album arriva un prezioso albo di una trentina di pagine, Playboys in the Holyland, con le sue poesie) compie una sorta di metamorfosi sonora che, tuttavia non cambia di una virgola il mood della sua opera, quella quieta malinconia, quella caparbia accettazione dell’ineluttabilità della vita che ha da sempre caratterizzato le sue canzoni e i suoi testi. La musica di Barzin ci ha sempre raccontato di amori delusi, dolori dell’anima, sincera e quasi intransigente autovalutazione di sé, e Voyeurs In The Dark, in questo senso, non si discosta dai suoi superbi predecessori Notes To An Absent Lover o To Live Alone In That Long Hot Summer: probabilmente le sue storie sono più astratte, meno personali, ma l’intensità rimane la stessa. Dopo anni e anni di slowcore caldo e atmosferico, Barzin introduce qui elementi più sperimentali (Distant Memories) , sfumature jazz (il sassofono notturno di It’s Never Too Late To Lose Your Life e To Be Missed In the End), suggestioni Fageniane (Watching), ritmi sintetici (I Don’t Want To Sober Up) e una buona dose di elettronica.
E’ come se l’artista canadese, con sapienza e accortezza, avesse deciso di sfruttare una più ampia palette sonora, di aprirsi a soluzioni diverse ma non avesse mai avuto alcuna intenzione di modificare o sacrificare il fulcro della sua poetica. Quella di Barzin è un’operazione non dissimile a quanto fece uno dei suoi numi tutelari, Leonard Cohen, prima in maniera confusa con Various Positions e poi in modo decisamente più convincente (ma questo è facile affermarlo solo adesso, a trentacinque anni dall’uscita dell’album) con I’m Your Man: se cambiano le vesti sonore, non cambia ciò che questi abiti devono vestire.
Spogliate dei loro orpelli elettronici – e si tratta di accessori e ornamenti sempre sobri e misuratissimi, mai sopra le righe – le canzoni di Voyeurs In The Dark sono delicate litanie notturne, osservazioni di una vita che si muove al rallentatore, echi lontani di un dolore anestetizzato, soppiantato dalla monotonia e dalla spossatezza che popolano le ore che precedono l’alba.
Barzin, in ogni caso, al contrario del Cohen di I’m Your Man, non risponde alla sconfitta con il cinismo, né sente alcuna necessità di rendere la propria proposta artistica più accessibile e al passo con i tempi. Continua a proseguire, con il suo passo, in una parabola artistica distante dalle mode e dalla frenesia del successo. E lo fa, questa volta, con un disco di una bellezza schiva e oscura, che ci permette di entrare piano piano, fino a che non arriva l’incanto.
Alla fine, nonostante qualche sporadica email (ormai la distanza tra artista e addetti ai lavori o fan è davvero stata quasi annullata) e un paio di fugaci incontri successivi, non ho mai fatto davvero amicizia con Barzin Hosseini e, certamente, se ci incontrassimo di nuovo, lui non ricorderebbe mai il mio volto (imbolsito), né il mio nome. Eppure, ascoltando le sue canzoni, sento dentro che abbiamo instaurato (a sua insaputa) un rapporto di dialogo, una comunicazione interiore profonda che nasce da una comune sensibilità. Vorrei solo che si facesse sentire più spesso.
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