Suede – Autofiction

Francesco Giordani per TRISTE©

Scarabocchio appunti camuffati da traballanti ragionamenti intorno al nono album in studio degli Suede, che esce in questi giorni e, nell’accavallarsi di idee e ricordi, mi torna in mente un diabolico quanto inconfutabile sillogismo. Lo lessi per caso anni fa, a margine del glorioso ritorno discografico dei Londinesi, quel Bloodsports che nel 2013 ne riaccese, contro ogni più roseo pronostico, l’astro tuttora fiammeggiante. La formula del sillogismo recita così, testualmente: “La decadenza a un certo punto dovrebbe decadere. Con la decadenza è scacco matto. Se vai avanti a cantarla non era vera decadenza. Se decade era vera decadenza, ma non c’è più e non devi esserci più tu.”

Vero. Verissimo. Per quanto tempo qualcuno può ragionevolmente sperare di cantare versi come: “And like all the boys in all the cities/ I take the poison, take the pity/ But she and I, we soon discovered/ We’d take the pills to find each other” (A New Generation, 1995),prima di perderci la faccia? Un conto è avere 28 anni, un altro quasi 55, è abbastanza evidente… Eppure il buon Brett Anderson non pare crucciarsene più di tanto e il motivo è presto detto, ben leggibile sulla copertina dell’ultimo album della sua band: Autofiction. Non un semplice titolo, piuttosto una precisa, direi inequivocabile, dichiarazione di poetica.

Con autofiction, almeno per quel poco che ne so, si tende oggi a definire un fortunato genere letterario, più o meno a metà strada fra il romanzo e l’autobiografia. Brett Anderson non è del resto estraneo, come anche il suo compagno bassista Matt Osman (autore del romanzo Rovine, uscito in Italia per Edizioni Atlantide), alle più sottili fascinazioni della letteratura. Ha scritto ben due libri di memorie (per restare in tema…) e i suoi testi, sempre molto curati nella forma, abbondano di citazioni o richiami a scrittori e poeti prediletti.

Credo però che con autofiction l’Inglese intenda qualcosa di più generico e di intrinsecamente connesso con l’essenza del fare arte in generale, ovvero quella sapiente mistura di artifizio e imitazione/stilizzazione del vero, quel virtuosistico esitare tra invenzione e cronaca fedele, che è all’origine di un gran numero di opere che consideriamo “autenticamente” compiute. D’altra parte, negli anni in cui cantava i versi poc’anzi citati, Anderson dichiarava a The Face: “Molte delle cose che faccio, le faccio in teoria. In questo sono un prodotto degli anni ’90, anni in cui molte esperienze sono solo mentali.”  

Semplicemente perfetto: gli Suede continuano da tre decenni, canzone dopo canzone, verso dopo verso, a “rappresentare” e immaginare sé stessi, a “fare romanzo” dei propri desideri, delle proprie fantasie e delle proprie emozioni, in un gioco poetico che necessita dell’(auto)finzione per svelare ed esprimere le verità più intime dell’anima.

Autobiografia ed epopea, confessione e riscrittura romantica, si intrecciano in un nodo indissolubile anche nelle nuove composizioni.  Brett Anderson è ancora “a young boy. Waiting patiently for 4 p.m.”. Allo stesso modo, sua madre ancora aspetta dall’aldilà di sentirlo suonare (“I wonder is she waiting in the garden for us to play”). All’inizio di She Still Leads Me On si ode addirittura un fremere di jack, un grattare di chitarre che si elettrificano: è il suono di una band che strimpella in sala prove ma anche la mitizzazione postuma di quella “scena”. È rinascita e elegia al tempo stesso.

Anderson non lesina falsetti e melismi folgoranti. Più che i soliti Morrissey e Bowie, a risuonare nella sua voce sono piuttosto Kate Bush, Siouxsie e Elizabeth Fraser. Il suono che lo sostiene è irto, graffiante, crudo, volutamente post-punk –  scopro peraltro che il produttore e “membro ombra”” Ed Buller fu occasionalmente tastierista negli Psychedelic Furs. Ma in Personality Disorder, The Boy in The Stage, 15 Again, The Only Way I Can Love You, nel gran finale di What Am I Without You e Turn Off Your Brain and Yell, si respira soprattutto un’aria Suede, un’aria fresca e pungente che riporta le orecchie ai momenti più memorabili della saga della band, all’esordio omonimo e a Dog Man Star (citati forse anche nella copertina), alla grazia glamour-pop di Coming Up  così come al wagnerismo neo-prog di The Blue Hour e Night Thoughts (disco quest’ultimo che col tempo impareremo a rivalutare).

Brett Anderson ha dichiarato che se Autofiction fosse uscito nel 2002 (al posto dello sfortunato A New Morning) gli Suede sarebbero ancor oggi un gruppo “mainstream”. Probabilmente è vero. Quello che più conta tuttavia, mainstream o non mainstream, è che gli Suede siano ancora qui.
Per il resto valgono le parole di Borges: “un uomo gradatamente si identifica con la forma del proprio destino. Un uomo è, a lungo andare, le proprie circostanze.”

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3 pensieri su “Suede – Autofiction

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