Francesco Giordani per TRISTE©
Ripenso agli anni 90, con le pupille ancora foderate dei fotogrammi malinconicamente opalescenti, crepuscolari di Aftersun, mentre da Spotify fa capolino la copertina del disco d’esordio degli Italia 90 -competizione di cui serbo un unico ma assai preciso ricordo: la statuetta di Gianluca Vialli, in equilibrio su una gamba sola, “pietrificato” in icona portatile giusto un attimo primo di calciare un pallone già destinato alle rete. Qualcuno, per qualche motivo, mi regalò quella statuetta comprandola all’interno del policlinico Gemelli di Roma, forse mentre aspettavo di far visita a mia nonna, da poco operata (peraltro proprio alla gamba).
Ripenso agli anni 90 e, in perfetta sintonia con l’eccezionale film della regista scozzese Charlotte Wells (del resto mia coetanea), subito parte nel mio cervello tutto un Super8 di estati color buco dell’ozono, vacanze, mare, videogiochi, biliardini, misteriose fanciulle-guerriere con ciucci e delfini di plastica appesi al collo o ai polsi, gelati Sammontana, Festivalbar seguiti a ruota da film equivoci (un po’ horror un po’ porno) in “seconde serate” che, come doppie vite segrete, parevano non finire mai, altro mare, zainetti con dentro Dylan Dog (un’orecchia invisibile fatta sulle scene d’”amore”), creme doposole, Macarene viste ma non ballate, il fresco ristoratore di certe incantevoli sere che corrono sulle gambe confortevolmente allungate all’ombra di tavolini di plastica bianca, ancora altro mare. Ma che voglia di arrivare. Lì da te. Da te.
Si è trattato di una madeleine talmente vertiginosa che il personaggio interpretato dal bravissimo Paul Mescal mi è parso quasi poter conferire un volto definitivo allo spirito struggentemente estivo, vacanziero, agrodolce, degli anni 90 da me vissuti e ricordati (avevo del resto gli stessi anni di sua figlia nel film, interpretata da una non meno brava Francesca Corio). Nella tristezza inconfessabile, dissimulata a fatica, di quel volto, nella segreta preveggenza dei suoi occhi, ho intravisto per un attimo il saluto d’addio della mia infanzia a sé stessa -tutte le vacanze devono pur finire…-, la fotografia perfetta (ma come scattata in anticipo) dell’impasse elegiaca, irrisolta, rimuginante, in cui oggi, spesso, da adulto mi sento imprigionato.
Nello score del film non figurano i Supergrass (ci sono però i Blur di Tender), che tuttavia, con la loro Alright , avrebbero potuto ritagliarsi qualche secondo di gloria nel momento karaoke. Li ricordo ospiti al Roxy Bar o additati su MTV da Gianluca Grignani (epoca Campi di Popcorn) a Victoria Cabello quale importante ispirazione. I Supergrass erano d’altronde parte non così secondaria del paesaggio sonoro di quegli anni. Molte voci di allora si sono nel frattempo dissolte, magari decantate in mito remunerativo (se abbastanza fortunate). Oppure hanno assunto nuove forme e grandezze, com’è giusto che sia. In giorni in cui ascolto la voce iconica di Nina Persson dei Cardigans impreziosire un delizioso disco folk o leggo di nuovi dischi incisi da Dave Rowntree e Graham Coxon dei Blur (che su Twitter incita incredibilmente Liam Gallagher a telefonare al fratello per fare la pace), non sono dunque così sorpreso dall’eccellente qualità del quarto disco solista di Gaz Coombes, che dei Supergrass fu voce, volto, chitarra nonché principale compositore.
L’ho pensato ascoltando Autofiction degli Suede lo scorso anno, l’ho ripensato ascoltando ininterrottamente, senza potermene staccare, Turn The Car Around di Gaz Coombes questa settimana: alcuni eroi degli anni 90, spesso bistrattati come e più dei loro fratelli maggiori anni 80, si stanno infine prendendo la loro inesorabile rivincita. E lo stanno facendo senza scimmiottare o idealizzare sé stessi, semplicemente accettando di invecchiare, continuando a fare quello che sanno e amano fare. A volte penso che dovrei anch’io fare altrettanto, visti i risultati.
Confesso peraltro di non avere particolari ricordi dei precedenti dischi solisti di Coombes, pur apprezzati dalla critica. Posso dire però che questo suo ultimo lavoro mi riporta subito a respirare l’aria rarefatta della vetta più alta scalata dai Supergrass ovvero Road to Rouen (2005). Da quel magnifico disco mi paiono provenire i venti psichedelici che increspano le superfici pazientemente levigate di Overnight Trains, di Dont’Say It’s Over e Sonny The Strong o dell’eponima Turn The Car Around, raffinatissime canzoni-specchio nelle quali l’Oxfordiano interroga e re-inventa sé stesso, mescolando autobiografia e autofiction, per rubare di nuovo la parola agli Suede.
A tal proposito, da qualche parte in questi giorni ho letto una frase semplicemente perfetta di Adorno: “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”.
Coombes, da navigatissimo artista della canzone qual è, trasforma queste parole in un album dalle mille magie e dalle ancor più numerose e contraddittorie (false) verità. Resta intatta la passione per vecchi stomp glam (Long Live The Strange) così come quella per il folk anni Sessanta (Not The Only Things, magistrale, e Dance On), che sa talvolta abbinarsi ad una ricerca di beats più contemporanei (This Love ma soprattutto Feel Loop, in cui la voce del Nostro quasi si confonde con quella di Thom Yorke, altro spirito degli anni 90 assurto a nuova insperata giovinezza). A dominare è un umore malinconico, pensoso, intimamente retrospettivo che però si astiene da bilanci prematuri e anzi sembra condensarsi in uno sguardo più pieno, partecipe e consapevole sulla vita.
Davvero non poteva esserci disco migliore per inaugurare questo nuovo anno.