Francesco Giordani per TRISTE©
Lo ammetto candidamente. Non mi avevano conquistato più di tanto i Sorry con il loro esordio 925, apparso nel marzo 2020 e ben accolto tanto dalla critica quanto dal pubblico di settore, pur in assenza di un vero e proprio tour promozionale a far da traino. Una prova non certo brutta, sia chiaro, che lasciava tuttavia trasparire un potenziale comunicativo per lo più inesploso, ancora piuttosto vago, un po’ Kills, un po’ XX, un po’ Yeah Yeah Yeahs, un po’ anche Goat Girl o Porridge Radio, solo per venire alla cronaca più recente.
Nel presentare alla stampa il secondo lavoro, la band londinese ha affermato che “If our first version of London in 925 was innocent and fresh-faced, then this is rougher around the edges. It’s a much more haggard place”, indicando nel grande cantautorato di Randy Newman e Carly Simon, come anche, forse un po’ pindaricamente, nel post-rock di Slint e Tortoise, i principali moventi ispiratori di Anywhere But Here.
Indicazioni queste ultime che vanno prese non troppo alla lettera e, comunque, con tutte le pinze e pinzette critiche del caso. Non troveremo infatti in quest’album, affidato peraltro alla curatela di Adrian Utley dei Portishead, una You’re so Vain o una Short People né tantomeno una Breadcrump Trail, figuriamoci.
Anywhere But Here è un lavoro certamente più organico e coeso del suo predecessore, in un certo senso anche più “maturo” (mi verrebbe quasi da dire young adult) nel suo alternare con raggiunto equilibrio canzoni pop umbratili, introspettive, a tratti inquiete, iniettate, questo sì, di massicce dosi di indie-rock d’Oltreoceano (direi soprattutto Warpaint, i più recenti Big Thief, Phoebe Bridgers…) ma anche di sofisticate ugge anni 90, come già notato da alcuni (vengono in mente i Cardigans, per fare un nome…).
Bastino in questo senso la bellissima Again, il romantico palpitare di There’s so many people that want to be loved, il retrogusto bedroom pop di Willow Tree, Baltimore, Key to the city, Closer (quasi perfetta), Hem of The Fray, assai spesso abilmente giocate sugli ormai collaudati duetti fra Asha Lorenz e Louis O’Bryen.
La produzione del veterano Utley garantisce unità nella molteplicità, scongiurando il rischio sempre concreto dell’album–playlist un tanto al chilo (alla maniera dei 1975, per intenderci); soprattutto dischiudendo la voce di una band che, negli anni a venire, potrebbe cantare le peripezie di un’intera generazione molto ma molto meglio di qualunque serial televisivo all’ultimo grido.
https://sorrybanduk.bandcamp.com/album/anywhere-but-here
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