
Francesco Amoroso per TRISTE©
La giovinezza ha gli occhi limpidi, ha uno sguardo sincero e un po’ sperduto, nel quale si intravede già lo sgomento della perdita e, insieme, è presente un’innocente e innata fiducia nel futuro, che riesce, anche solo per un momento, a prescindere da qualsiasi prospettiva funesta.
C’è qualcosa di fatato nella giovinezza. Qualcosa che, ogni volta che la guardo dritta negli occhi, mi rende le gambe molli, mi impedisce di muovermi, di respirare al solito ritmo, di pensare.
La giovinezza è negli occhi incerti ma ridenti di un bambino di dieci anni che si allontana eccitato e smarrito ed è nello sguardo risoluto e introverso di un ventenne, che guarda verso giorni migliori, anche a discapito di ogni logica.
Alex Pester è (almeno in musica) l’incarnazione della speranza di questi giorni migliori (anche a discapito di ogni logica).
La giovinezza, forse, riesce a risplendere -fuggevolmente, s’intende- anche nei mei occhi, quando si spalancano di fronte alla sorprendente scoperta della inaspettata, precoce, abbagliante bellezza della musica di Alex Pester.
Era già successo con l’incredibile Lover’s Leap di un paio d’anni fa e succede di nuovo (e con immutato stupore) con Better Days, il nuovo album dell’artista di Bath, appena uscito per la sempre più essenziale Violette Records.
Alex Pester ha poco più di vent’anni e la mente vacilla a pensare dove potrà arrivare, avendo praticamente tutta la vita davanti, vista l’apparente noncuranza con la quale pennella melodie perfette, compone brani delicati e squisiti.
Ma senza la necessità di atti di fede o di salti nel buio, è sufficiente fermarsi all’oggi e, magari chiudendo gli occhi, lasciarsi sconfiggere dolcemente dal suo Better Days che, primo album ad essere pubblicato anche in formato fisico, arriva dopo le tre raccolte di brani digitali Devotion (2019), Seasons (2020) e, il già citato Lover’s Leap (2021) (per non parlare delle tante canzoni e album “artigianali”, pubblicati dal 2017 su una pagina di Bandcamp a nome As I Recall It e The After School Club).
Quella di Pester sembra una sorta di eterna primavera (“vivid and in your prime…” cantava qualcuno), uno sbocciare continuo di fiori musicali, bellissimi a vedere e profumatissimi.
Qualora, tuttavia, non bastasse parlarvi di fioriture, profumi e perfezione (concetti che, mi rendo conto, applicati alla musica, possono risultare un po’ astratti) e ci fosse bisogno di dare qualche coordinata musicale più concreta, basterà dire che a dieci anni Alex ascoltava i Beatles in cuffia, sul torpedone che lo portava in gita in Galles (e sono sicuro che lo sguardo nei suoi occhi era esattamente come quello di cui parlavo all’inizio), oppure che, già un anno prima, era portato alle lacrime dall’ascolto di Which Will di Nick Drake (“Nick Drake was the big musical epiphany of my life. His chords; his voice; the strings; the production; the emotion; the clarity. There’s a reason why people write tomes about him, however the heart of his music will always be too simple and illusive for any essay. It’s me in year 9, crying to “Which Will”, it’s every song I play finger-style, he is the life in the buzzing strings.“).
E’ da queste coordinate (e dall’amore per la scena di Canterbury e per Donovan) che nascono da sempre le canzoni di Alex Pester e i dieci brani di Better Days non fanno eccezione.
Le sue composizioni si muovono leggiadre, eleganti, purissime, su quella sottile soglia che separa (e, spesso, fonde) il folk e il pop barocco.
Su Better Days, Alex suona tanti strumenti (chitarra acustica ed elettrica, pianoforte, organo, basso, percussioni, cetra, armonium, glockenspiel, sintetizzatori) e si fa accompagnare da violoncello, violino, contrabbasso, arpa, tromba e clarinetto (e dal cinguettio degli uccelli), costruendo, nota dopo nota, senza affastellare i suoni, ma disponendoli accuratamente e stando attento a concedere ad ognuno di loro lo spazio necessario per respirare, un universo sonoro nel quale il passato si fa contemporaneo e il concetto stesso del tempo comincia a perdere i propri contorni.
L’introduttiva Dear Friend, con i suoi arpeggi di chitarra acustica e una voce resa ancora più ariosa e suggestiva dalla sua stessa sovra-incisione, è di semplicità disarmante, delicata e malinconica -e, seppure non sia difficile distinguerne le ascendenze, rimane di incredibile purezza melodica- ma già dal commovente intro d’archi della successiva, magnifica, Big Black Second-Hand Book, con la sua melodia mccartneyiana, gli arrangiamenti si fanno più complessi, rimanendo comunque di una strabiliante leggerezza. L’effetto drammatico garantito dall’elegantre intreccio tra gli ottoni e le corde è stemperato sul finale da un pianoforte punteggiato. Non a caso. In questo nuovo lavoro, infatti, il piano si ritaglia tanto spazio: proprio a partire da questo brano Pester ha cominciato a comporre sempre di più su questo strumento con evidenti effetti sulla struttura dei brani.
Alternando sapientemente (come se fosse un autore navigatissimo, ben al di là dei suoi anni) gemme acustiche di pregevole fattura quali I See You, la sublime You’re My Kind (semplicissima e per questo ancora più sublime) o la conclusiva, intrepidamente tenera, Bye Bye Teddy, passaggi nei quali il songwriting sfuma fino a confondersi con la composizione d’atmosfera (la struggente You Love Me, o Are You Gonna Make Her Choose?,canzone sopraffina, che non può che far gridare al miracolo) a momenti jazzati e quasi onirici (So What, costruita su una voce femminile che ripete due parole, una tromba e pochi strati di ottoni o la sognante e delicatissima In The Night, ancora con la tromba), e uno strumentale spiazzante e pieno di inventiva come Restless, Alex Pester, a poco più di vent’anni e con una mezz’ora di musica riesce a regalarci una carezza, un massaggio al cuore.
Riesce a racchiudere nella sua musica e a cogliere con le sue parole qualcosa di essenziale e unico: “All my love just overflows, each time I am all alone“.
La inestinguibile (e per questo tragica e ingenua allo stesso tempo) innocenza della gioventù.
Un autore come Alex Pester non può che farmi (farci) sperare -come dice il buon Francesco Giordani- in un avvenire migliore di quello che a volte temiamo, ma, senza il bisogno di guardare troppo avanti, è innegabile che “i giorni migliori” siano già davanti ai nostri occhi.
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