Sufjan Stevens – Javelin

Se avessi mai pensato di darmi -davvero- alla scrittura e fossi stato tormentato dal fuoco sacro dello scrittore (tanto simile alla paura della morte), quell’ansia costante che obbliga a fissare in modo indelebile inezie evanescenti, allora, forse, le disquisizioni su minuscoli dettagli che mi erano tanto familiari avrebbero potuto suscitare in me una fitta d’invidia e il desiderio di scrivere ancora meglio sugli stessi argomenti. Invece sono stato travolto da un tale sentimento di caldo affetto per alcuni di coloro che avevano scritto tali disquisizioni, che gli occhi hanno cominciato addirittura a pizzicarmi.
Comincio, mio malgrado, a credere nella cosiddetta serendipity: mentre, immerso nella lettura di uno dei romanzi minori di Vladimir Nabokov (La gloria; ma esistono romanzi minori di Nabokov?), ero alla ricerca della bellezza assoluta – che nella scrittura dell’autore russo si trova, a profusione- mi sono imbattuto in questo passaggio che ho, qui sopra, indegnamente parafrasato. Cercavo la bellezza e ho trovato la descrizione perfetta, puntale -quasi un’epifania- del mio rimescolamento, dell’emozione che mi ha colto nel leggere alcune delle recensioni dell’ultimo album di Sufjan Stevens.

È, senza dubbio, l’argomento ad appassionarmi -e che, evidentemente, appassiona anche tanti altri- ma non è solo quello.
Perché parlare di Sufjan Stevens e della sua musica comporta, inevitabilmente, un coinvolgimento emotivo particolare: si tratta con tutta probabilità dell’autore che più di ogni altro, negli ultimi vent’anni, ha avuto la capacità di aprire al mondo il proprio cuore, con generosità e assoluta trasparenza, per analizzarne i desideri e i palpiti, senza alcuna esitazione e senza nascondersi dietro falsi pudori o ardite metafore.
Come è stato fatto notare da altri (più bravi di me) pochi versi riassumono l’approccio alla scrittura musicale di Sufjan Stevens meglio di “I pledge allegiance to my burning heart” (“Giuro fedeltà al mio cuore ardente”), le parole che chiudono Will Anybody Ever Love Me?, uno dei primi estratti da Javelin, il suo ultimo album e quello in cui, almeno dal capolavoro Carrie & Lowell del 2015 (un album che si ha quasi paura di toccare, tanto è vulnerabile ed esposto, quasi fosse carne viva, privata della sua protezione), Sufjan Stevens si è messo più a nudo.

Nell’ultimo decennio, Sufjan Stevens si è fatto coinvolgere in mille progetti e, a sua volta, ha coinvolto amici, collaboratori, parenti, in altrettanti esperimenti, magari non tutti riusciti allo stesso modo, ma, certamente, tutti caratterizzati dalla sua curiosità, dalla sua voglia di mettersi alla prova e, soprattutto, dalla sua necessità, quasi fisica, di esprimersi, di concedersi, di comunicare.
Da Carrie & Lowell c’è stato Planetarium, la collaborazione “astronomica” (con alcune vette musicali straordinarie) con Nico Muhly, Bryce Dessner e James McAlister, le divagazioni modern classical di The Decalogue con Timo Anders, gli esperimenti ambientali di Aporia in compagnia di Lowell Brams (proprio “quel” Lowell), l’album strumentale di meditazioni, composta da quarantanove tracce, Convocation, la collaborazione (riuscita) con il discepolo Angelo de Augustine in A Beginner’s Mind e una partitura per balletto eseguita dai pianisti Timo Andres e Conor Hanick (Reflections). In mezzo è arrivato The Ascension, che lo vedeva da solo all’opera, ma nel quale convergevano, coperte di sintetizzatori e drum machine e in maniera non sempre equilibrata, le varie anime di Stevens.

Se tutto questo sia stata una reazione all’incredibile successo di Mystery of Love, il brano registrato per il film Call Me By Your Name di Luca Guadagnino e che ha reso Sufjan un artista in qualche modo mainstream, o se si sia trattato solo dell’impossibilità di dare un vero seguito al fragile capolavoro del 2015, o, ancora, che, più semplicemente, Sufjan abbia sentito l’esigenza di uscire da una gabbia sonora che gli era stata (erroneamente: basti pensare i due lavori d’esordio A Sun Came e The Year Of The Rabbit e a The Age Of ADZ del 2010) costruita intorno, non è dato di saperlo. Quel che è certo è che Sufjan Stevens rimane, nel profondo, un cantautore folk e Javelin è, in questo senso, un ritorno a casa.

Lo è sin dal sospiro che apre Goodbye Evergreen, seguito da dolci accordi di piano e dalla vellutata voce di Sufjan. Ma, ne sono certo, Sufjan Stevens è anche un artista che conosce se stesso e che sa perfettamente che credere di poter riscrivere un capolavoro come Carrie & Lowell sarebbe presuntuoso (e forse anche inutile).
È, così, ancora Goodbye Evergreen a dirci che Javelin non è e non potrebbe mai essere Carrie & Lowell 2 – Il Ritorno: il brano cresce fino a una cacofonia di voci e ritmi, con synth, drum machine e campionamenti che fanno deragliare la delicata confessione iniziale. Nell’arco dell’album questa dinamica si ripete spesso e anche le composizioni più semplici e fragili sono arricchite da increspature e passaggi stordenti.

Javelin, pur dedicato al compagno scomparso e in parte scritto alla luce di questa perdita (“Everything heaven-sent/ Must burn out in the end”) non può avere l’impatto emotivo e evocativo di Carrie & Lowell e, allora, invece che al dolore e alla perdita, Stevens allude sovente all’innocenza (perduta?) dell’infanzia e al tentativo, spesso frustrato, di ascesi e misticismo (“Jesus, lift me up to a higher place/Can you come around before I go insane” canta in Everything That Rises).
Una tale tensione ideale è raggiunta, dal punto di vista musicale, con l’uso continuo di un coro celestiale di voci femminili (che, rielaborate, suonano spesso come vere e proprie voci bianche). Hannah Cohen, Adrienne Maree Brown, Pauline Delassus, Megan Lui e Nedell Torris sono il suono dell’elevazione, del distacco dalle tribolazioni terrene, ma, allo stesso tempo, sono la voce limpida e pura -eppure potentissima- del fanciullino, di quel ragazzino che Sufjan non ha mai smesso di essere. Avete mai incrociato il suo sguardo durante un concerto, l’avete mai guardato negli occhi? E, dopo averlo guardato negli occhi, riuscite ancora a non credergli?

Solo un ragazzino avrebbe il coraggio di chiedersi, candidamente, senza temere di risultare ridicolo, Will Anybody Ever Love Me? o proverebbe un sottile piacere a intitolare un brano -il più lungo e articolato del lotto- Shit Talk, o, ancora, solo un innocente, un ingenuo, avrebbe l’ardire di chiudere un album di ballate folk con una cover -anche piuttosto canonica, ma bellissima- di un brano di Neil Young, proveniente da quella vera e propria intoccabile icona del folk che è Harvest (“There’s a world you’re living in/ No one else has your part/ All God’s children in the wind/ Take it in and blow hard“).

Ma Sufjan Stevens è così: non ha mai dimenticato chi è stato e ha ben chiaro chi è adesso.
Il coraggio di mostrarsi fragili è la forza di queste canzoni, la cifra della loro autenticità” dice Gabriele Benzing in uno di quegli scritti che, come dicevo all’inizio, mi hanno fatto pizzicare gli occhi (e, confesso, anche provocato una punta di invidia). Ed è proprio questo, probabilmente il fulcro di Javelin: scevro da ogni orpello, senza la corazza die collaboratori, privato delle sovrastrutture intellettuali che hanno caratterizzato i suoi lavori nell’ultimo decennio, Sufjan Stevens si mostra nuovamente nudo. Nudo e fragilissimo, con la voce che sembra potersi spezzare da un momento all’altro, e, per questo motivo, coraggiosissimo.
Tanto coraggioso che il momento più alto dell’album è contenuto nel suo brano più indifeso: Javelin (To Have And Hold), che dura neanche due minuti e che ci racconta con commovente poesia come ottenere qualcosa voglia dire averla già perduta, mescolando, ancora una volta, afflato mistico e nostalgia fanciullesca: “For the javelin I had not/ Meant to throw right at you/ For if it had hit its mark/ There’d be blood in the place/ Where you stood“.

Forse davvero Sufjan non intendeva colpirmi al cuore con la lancia che ha gettato ancora una volta dritta verso di me, ma, ciononostante, ha colpito in pieno il bersaglio. E adesso c’è sangue -e lacrime- nel posto in cui mi trovo.
Potrei continuare a parlare di Javelin per ore, analizzarne ogni nota, ogni suono e ogni parola. Ma mi rendo conto che analizzare la bellezza -e il coraggio della bellezza di trovarsi esposta- quando ce la troviamo davanti non ha alcun senso.
Accettiamola e godiamone.

3 pensieri su “Sufjan Stevens – Javelin

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