Francesco Amoroso per TRISTE©
Da quando, oramai sei anni fa, è uscito Carrie & Lowell mi rendo conto di avere un problema personale con Sufjan Stevens.
La bellezza di quell’album era talmente intima e devastante e mi colpì così in profondità che qualsiasi cosa l’artista americano abbia prodotto da allora ha sempre provocato in me una piccola, spesso inconscia, delusione.
Anche un album stimolante e originale come Planetarium, in compagnia di Nico Muhly, Bryce Dessner e James McAlister, o The Ascension, così ricco di spunti melodici e di arrangiamenti modernissimi, mi hanno lasciato, in fondo al cuore, la stessa sensazione.
Forse è inevitabile: quando si raggiungono picchi emotivi come quelli che il buon Sufjan ha raggiunto con il suo album meno pensato e più sentito, è difficile ripetersi.
A maggior ragione lo stesso mi accade con il principale seguace (se non emulo) di Sufjan, quell’Angelo De Augustine che, prima con Swing Inside The Moon e poi con Tomb (entrambi usciti per la Asthmatic Kitty della “famiglia” Stevens), si è posto, con le sue ballate fragili ed elegiache, nella scia del maestro.
Dalla loro estemporanea (e quasi inevitabile) collaborazione, così, mi aspettavo certamente ballate coinvolgenti e ben scritte, ma, contrariamente a quanto sarebbe potuto accadere prima di Carrie & Lowell, certo non il capolavoro. E, del resto, l’affermazione di Stevens di essere “così stufo della musica folk“, rilasciata durante la promozione di The Ascension, esattamente un anno fa, non prometteva (almeno per me) nulla di buono.
E’ stato forse Angelo De Augustine a far tornare al nostro Sufjan la voglia di scrivere ballate folk tenere, fragili e diafane, perché questa nuova collezione (ben 14 brani per tre quarti d’ora di musica) mette da parte l’elettronica e gli arrangiamenti astrusi del pur brillantissimo The Ascension e riporta al centro della scena chitarre acustiche, pianoforte e delicate voci sussurrate. Ed è già una buona notizia.
Come per quasi tutti i lavori di Sufjan Stevens, comunque, anche A Beginner’s Mind è una sorta di concept album, stavolta incentrato sulla passione per il cinema: Sufjan e Angelo si sono autoreclusi per un mese nella baita di un amico, nello stato di New York, guardando ogni sera un film diverso e, il giorno dopo, scrivendo canzoni basate su ciò che avevano visto la sera precedente.
Se la straniante copertina dell’album, ispirata al mondo dei poster dei film ghanesi dipinti a mano, potrebbe far pensare a un album cupo e disturbante, pieno di dettagli orrorifici, basta fare un rapido giro tra le canzoni che il duo ci propone per capire che anche i film più inquietanti, come La Cosa, Il Silenzio degli Innocenti o Hellraiser III, hanno ispirato miti e carezzevoli ballate per pianoforte e chitarra.
“I have a memory/ Of a time and place where history resigned/ Now my apology/ All the light came in to fulminate my mind“, inizia l’opener Reach Out, ispirata al film di Wim Wenders, Il Cielo Sopra Berlino, e subito è chiaro come, ben lungi dall’essere meri esercizi di stile, le canzoni concepite da Stevens e De Augustine sono acuti commenti sulla contemporaneità: basta pensare al desiderio dell’ angelo, protagonista del film, di toccare le persone che ama (“Reach out, reach out/ To all the ones who came before you/ Reach out, reach out/ And all at once the pain restores you“) per rendersi conto che qui, più che di Wenders, si parla della pandemia e delle sue devastanti conseguenze, anche emotive.
Lo stesso accade con “(This Is) The Thing”, ispirata, naturalmente a John Carpenter, dove “la cosa” che possiede uomini e animali diventa il complottismo e la paranoia che si stanno diffondendo in maniera sempre più preoccupante (“This is the thing about people/ You never really know what’s inside/ Somewhere in the soul there’s a secret/ Hysteria grows where it was invited“). Anche la (quasi) title-track, con i suoi commoventi passaggi di pianoforte, trae amari e profondi insegnamenti di vita da Point Break (“Life was just a new way to die“).
Il parlare di film è, insomma, solo una scusa, una necessaria schematizzazione per affrontare temi universali e intraprendere un’altra, a tratti amara, ma sempre costruttiva, riflessione sul nostro modo di affrontare un mondo stravolto e distrutto.
Non che Sufjan e Angelo si nascondano, tanto che in Murder and Crime si chiedono, senza tanti giri di parole: “Where does everything go when everything’s gone?/ For my heart cannot break much more“.
L’album, in fondo, è esplicito sin dal titolo che si riferisce alla pratica buddista zen Shoshin, che incoraggia gli adepti ad affrontare le situazioni con un senso di apertura e l’accettazione di una “mente da principiante”.
Tale è l’affiatamento tra i due artisti che non è sempre chiaro chi stia cantando e spesso le voci si intrecciano e sembrano uscire dallo stesso microfono.
Stevens e De Augustine possiedono magnifici falsetti di scintillante e commovente bellezza, ma non di sole chitarre acustiche e voci eteree vive l’album: così Lady Macbeth In Chains si chiude sui passaggi di synth tanto cari Stevens, Back to Oz ha un arrangiamento rigoglioso e una batteria elettronica (oltra a un assolo di chitarra elettrica!), You Give Death a Bad Name è carica di armonie inquietanti, chitarre sghembe e ritmi incalzanti.
La collaborazione tra il veterano Sufjan e il giovane Angelo De Augustine, alla fine, si rivela essere molto più che la semplice somma di due talenti o un’idea bizzarra che due amici hanno trovato per passare le serate.
Dagli inarrivabili vertici di Carrie & Lowell, A Beginner’s Mind è forse l’album più intenso e personale di Stevens e quello in cui l’artista del Michigan, brillantemente coadiuvato e affiancato dal promettente allievo, più si espone e scava dentro di sé e dentro le sue paure e idiosincrasie per cercare risposte universali.
E, se c’è sempre stato spazio per canzoni a cuore aperto, oggi sono diventate una vera e propria necessità.
Pingback: Le firme di TRISTE©: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2021 | Indie Sunset in Rome