Francesco Amoroso racconta il (suo) 2017

Francesco Amoroso per TRISTE©

Ogni anno, appena inizia Dicembre (a volte addirittura alla fine di novembre) comincio a sentire una certa ansia e inquietudine, nell’attesa che mi arrivi la fatidica domanda: “Mi mandi la tua classifica degli album”?

Fino a qualche anno fa (un decennio?) stilare una classifica di fine anno dei dischi più amati, era un’attività divertente e appagante. Era piacevole confrontare le mie preferenze con quelle degli amici e delle riviste musicali.

Da molto tempo, però, non è più così: da un lato oramai ascolto solo ciò che mi interessa, spesso “bucando” clamorosamente i dischi del momento o le uscite più innovative e influenti, dall’altro il mondo musicale si è così ampliato e parcellizzato che redigere una lista di album di genere diverso e di attitudini sonore lontanissime ha sempre meno senso.

Ciò non toglie che, anche quest’anno, mi accinga a fare il mio “dovere”. Se una o due persone scopriranno, grazie a queste mie parole, un nuovo album o un nuovo artista, allora saprò che non sono parole spese inutilmente.

TRISTE© (con Vieri nelle vesti di Capo con un bel pungolo per il bestiame sempre pronto a darmi la scossa) mi ha chiesto, come al solito, di elencare i miei cinque album preferiti del 2017.

Ebbene, approfittando del fatto che non ci sarà tempo per correggere queste righe,  invece di scrivere la mia TOP FIVE, proverò brevemente a riepilogare lo stato di salute dei generi che seguo con più attenzione (la divisione in generi è puramente utilitaristica e del tutto arbitraria).

Per ogni “genere” troverete il mio album preferito di questo 2017, seguito da una (più o meno lunga) digressione. Se volete solo conoscere le mie 5 scelte, potete saltare tranquillamente da punto a punto.

– Cantautori: Michael Head & The Red Elastic Band – Adiós Señor Pussycat

In ambito cantautorale l’album che più mi ha colpito è l’attesissimo ritorno di Michael Head con la Red Elastic Band. Lavoro piuttosto lontano dal folk tradizionale e che arriva a vent’anni dall’unico altro album “solista” del leader di Pale Fountains e Shack (The Magical World Of The Strands), Adiós Señor Pussycat [Violette] riprende il discorso da sempre portato avanti da Mick Head nelle sue varie incarnazioni: canzoni pop malinconiche ma indocili che sprizzano amore per la psichedelia dei Love e per le orchestrazioni sixties e un po’ barocche dei Left Banke. Brani di infinita dolcezza, che hanno la capacità di suscitare emozioni forti e, allo stesso tempo, placare la furia dei sentimenti.

Altrettanto entusiasmante è stato il nuovo lavoro di Sam Genders con i suoi Diagrams. Dorothy [Bookshop] ha caratteristiche del tutto peculiari: è una collaborazione tra il musicista inglese e la poetessa novantenne Dorothy Trogdon, che rappresenta un mirabile connubio tra parole e musica, con sublimi arrangiamenti, lievi e armoniosi, che sottolineano i testi evocativi e pieni di calore.
Ritorno alla forma migliore anche per Sam Beam, alias Iron & Wine che con Beast Epic [Sub Pop] rinverdisce i fasti dei suoi primi lavori, con un suono più scarno rispetto alle ultime prove e con melodie ariose e indimenticabili.
Non può tacersi, seppure in ambito diverso, l’esordio di Jake Bellissimo con The Good We’ve Sewn [Wwnbb]. Il giovane musicista newyorkese scrive canzoni con arrangiamenti ricchi e raffinati e un entusiasmante uso dei fiati tra folk, romanticismo e twee pop.
C’è poi Phil Elverum che, con il suo progetto Mount Eerie e l’album A Crow Looked At Me [P.W. Elverum & Sun] ha scritto uno dei lavori più profondi, emozionanti e significativi dell’anno. Il racconto diretto, scarno e senza fronzoli della morte della moglie malata di cancro è talmente coinvolgente da essere quasi impossibile da sopportare.
Nella cerchia strettamente folk salutiamo con grande entusiasmo l’esordio del francese Raoul Vignal. Il suo The Silver Veil [Talitres] caratterizzato da una voce carezzevole e emotiva e da un delicato fingerpicking giocato su accordature alternative dimostra uno stile intenso, nostalgico e personale. Uno dei migliori esordi folk dell’anno.
Scelta peculiare quella di Adrian Crowley, irlandese dalla lunga carriera alle spalle che in Dark Eyed Messenger [Chemikal Underground] si reinventa grazie a Thomas Bartlett, aka Doveman, abbandonando la chitarra acustica e ammantando le sue canzoni di pianoforte e sottile elettronica, che fanno ancor più risaltare la sua voce profonda e le sue doti di scrittura.
Al contrario, l’inglese Dan Michaelson, in libera uscita dai Coastguards, nel proprio secondo album solista First Light [The State51 Conspiracy] ha deciso di vestire le proprie composizioni di partiture orchestrali corpose e emotivamente trascinanti, con risultati eccellenti.
Sarebbe, poi, seppur sul versante più pop, davvero un peccato dimenticare il ritorno di Jens Lekman che, nei primissimi giorni dell’anno, ha rilasciato Life Will See You Now [Secretly Canadian] che, pur non raggiungendo le vette degli esordi, è un lavoro di tutto rispetto nel quale lo svedese, per la prima volta invece di raccontare se stesso, racconta storie in terza persona.
Il cantautore americano Will Stratton approda, con il notevolissimo Rosewood Almanac [Bella Union] a un’etichetta importante e lo fa grazie a un lavoro meno complesso dei precedenti, nel quale le melodie spiccano il volo e l’atmosfera si fa più ottimistica.
Sulla scia di Sufjan Stevens, che lo ha scoperto e pubblicato, esordisce anche Angelo De Augustine. Swim Inside The Moon [Asthmatic Kitty], dal suono ovattato e carico di riverbero, ci accompagna verso quella terra di mezzo eternamente sospesa tra reale e immaginario, tra veglia e sonno, quasi che la musica di De Augustine fosse una versione onirica delle canzoni di Elliot Smith.
Arrivano dall’Inghilterra, invece, Jeremy Tuplin e Nick Ellis, rispettivamente dal Somerset e da Liverpool. Se il primo scrive canzoni classicamente folk, condite da una voce e una personalità che non possono passare inosservate, il secondo rifacendosi più al blues, è uno storyteller di primissimo livello che alterna brani più ritmati a ballate d’altri tempi.
L’artista texano (già noto per il suo progetto Parker & Lily) Monk Parker giunge con “Crown Of Sparrows” [Grand Jury] al secondo lavoro solista, nel quale continua a mescolare sapientemente piccole suite orchestrali a brani più immediati e diretti, creando sonorità personalissime e originali.
Dopo l’apprendistato con la Fence e la Lost Map, lo scozzese Seamus Fogarty esordisce su Domino Records con The Curious Hand [Domino], album sbalorditivo caratterizzato dalla sua voce disadorna e da arrangiamenti elettronici, voci registrate e field recordings che fanno da contraltare ai suoni caldi e tradizionali del suo folk.
L’atteso secondo album di Ned Roberts, Outside My Mind [Aveline], non tradisce le aspettative e, pur non rappresentando uno strappo rispetto all’esordio, conferma la crescita di questo cantautore inglese, innamorato del suono folk più puro e degli anni sessanta.
Menzione d’onore, infine, anche ai lavori di Father John Misty, Pure Comedy [Sub Pop], che si conferma un entertainer coi fiocchi, Ed Dowie, che con The Uncle Sold [Lost Maps], spiazza e affascina, Ralegh Long, il cui Upwards Of Summer segna una dipartita dai suoni dell’esordio, ma ne conferma le straordinarie doti interpretative e di scrittura e Johnny Flynn che con Sillion [Transgressive] e tornato alla scrittura di brani folk dal sapore di tradizione.

 

– Cantautrici: Aldous Harding – Party
Il secondo album della mia amatissima Aldous Harding vede la luce per la prestigiosa 4AD ed è stato prodotto a Bristol da John Parish (PJ Harvey, Sparklehorse). La straripante individualità della giovane neozelandese che, cambiando continuamente registro vocale, unisce umorismo macabro e contorto, sfrontatezza, dolcezza e turbamento, e il desiderio di sperimentare di Parish si sono uniti in un connubio perfetto: i nuovi brani suonano audaci, avventati, in bilico tra classicità e avanguardia, tra melodia e dissonanza, tra carezza e graffio. Gli arrangiamenti perfettamente misurati trovano per ogni canzone, che sia grazie a un coro, a sottili inserti elettronici, a un clarinetto, la chiave di volta per esaltarne il fascino e renderle uniche.

Altra voce alla quale sono molto legato è quella di Kate Stables, alias This Is The Kit che con Moonshine Freeze [Rough Trade], prodotto da… John Parish e Aaron Dessner del National,conferma le sue straordinarie doti, ampliando ulteriormente il proprio range sonoro con canzoni che spaziano dalla classica ballata popolare alla sperimentazione weird folk.
Sorprendente, invece l’esordio di Jófríður Ákadóttir, in arte solo Jfdr. Metà del duo Pascal Pinon (con la sorella) e attiva in almeno altri tre progetti, con Brazil [White Sun], suo primo lavoro solista, insieme al produttore Shahzad Ismaily costruisce brani sognanti e cupi, ritmi spezzati, canzoni sghembe e inclassificabili che lega grazie alla sua voce diafana e ipnotica.
Esordio notevolissimo anche per Azniv Korkejian che in arte di fa chiamare Bedouine. Nata ad Aleppo da genitori Armeni, ha vissuto in Arabia Saudita prima di trasferirsi con la famiglia a Los Angeles. Il suo album Bedouine [Spacebomb] si muove con eleganza tra Americana, country, folk e soul ricordando una gemma perduta dei primi anni ’70, anche grazie alla sua voce malinconica e calda.
Non poteva mancare in questa carrellata un altro esordio importante: quello di Elle Mary & The Bad Men. La giovanissima gallese, di stanza a Manchester con Constant Unfailing Night [A Modest Proposal] propone canzoni taglienti e introspettive caratterizzate da un continuo crescendo emotivo. Il suo, più che folk, è una versione personalissima dello slowcore, acustica e minimale.
Se il primo lavoro della neozelandese Nadia Reid mi aveva colpito, ma non esaltato, Preservation [Spunk] è completamente un’altra cosa: la voce è più decisa e personale e anche il suono si è fatto meno scolastico. Le canzoni che compongono l’album sono potenti e dirette, emanazioni di un talento puro che non si nasconde più dietro i grandi occhiali da vista, ma ha superato definitivamente la propria timidezza.
Con In The Same Room [Domino] Julia Holter rielabora in chiave organica e acustica, con arrangiamenti elaborati ma austeri, alcuni dei brani più noti della sua discografia. Se le canzoni tratte dal suo precedente lavoro riescono ad acquistare fascino e immediatezza anche nelle loro dilatazioni, sono i brani tratti da Tragedy e Loud City Song, presentati senza gli orpelli degli arrangiamenti ingegnosi e volutamente sovraccarichi delle versioni originali a sorprendere in vesti che potevano non sembrare loro consone.
Meg Duffy ha scelto come pseudonimo Hand Habits e, dopo aver lavorato a vario titolo con artisti del calibro di Kevin Morby e Weyes Blood ha registrato il suo album di debutto Wildly Idle (Humble Before The Void) [Woodsist] scrivendo con la sua chitarra elettrica canzoni silenziose ma potenti, accattivanti e idiosincratiche.
Eccellente anche il nuovo album di Julie Byrne, Not Even Happiness [Badabing] nel quale sua incredibile voce così naturale eppure “quasi ultraterrena” (cit.) scandisce testi che parlano d’amore, in tutte le sue forme. Un incanto, un disco profondo e maturo, cui l’autrice americana è giunta dopo tre ottimi album.
Non so se si possa definire un vero e proprio album, ma Spring Demos [Fox Food] della giovane canadese Dana Gavanski, uscito solo su cassetta, è un lavoro sorprendente e appagante nel quale, nonostante il titolo, arrangiamenti minimali affiancano una voce già matura e un chitarrismo essenziale e intimo.
Che Phoebe Bridgers, sponsorizzata da Ryan Adams, fosse un’artista da seguire si diceva da tempo, ma il suo esordio Stranger In The Alps [Dead Ocean] supera ogni aspettativa grazie ai testi fieramente malinconici e tristi e a una notevole varietà di registri musicali.
Consacrazione (almeno per il sottoscritto che non era mai riuscito del tutto a comprenderne la grandezza) per Susanne Sundfør. Il suo Music For People In Trouble [Bella Union] è pieno di canzoni semplici e struggenti, che, pur senza rinunciare alle peculiarità di un’artista che in patria è una vera diva, mette da parte l’eccessivo uso dei synth per regalarci un suono caldo e organico.
Mackenzie Scott, aka Torres, a 26 anni e al terzo album continua a cambiare pelle, Three Futures [4ad] esplora l’elettronica e il suo art-pop si allontana dal folk rock degli esordi, con risultati comunque sorprendentemente pregevoli, grazie alla sua voce piena di personalità e a brani eterogenei, ma coerenti e coesi.
Arriva dalla Scozia, via Parigi, Siobhan Wilson che aiutata da una voce fenomenale e una sorprendente capacità di scrivere testi che sono al tempo stesso delicati e di grande impatto, in There Are No Saints [Song, By Toad]” supera la propria impostazione classicamente folk regalando sorprese ad ogni nuova canzone. Con alcune perle assolute.
Sia Lotte Kestner con l’ottimo Off White [Saint Marie] che Chantal Acda con Bounce Back [Glitterhouse] non fanno altro che confermare la loro straordinaria capacità di affascinare e avviluppare, ognuna a modo proprio, l’ascoltatore in una coltre di suono caldo e sensuale, mentre la svedese di origini giapponesi Sumie (Nagano) nel suo secondo lavoro Lost In Light [Bella Union] cerca una soluzione meno minimalista rispetto all’esordio e grazie ad arrangiamenti orchestrali ben dosati alza la posta infondendo pathos e urgenza alle sue carezzevoli composizioni folk.
La stessa scelta l’ha compiuta anche Tamara Lindeman, The Weather Station, che nell’omonimo terzo lavoro [Paradise Of Bachelors] abbandona il minimalismo degli esordi, confezionando canzoni stratificate e sfaccettate.
Si conferma sempre su altissimi livelli compositivi e interpretativi anche Laura Marling che, in Semper Femina [Kobalt], predilige canzoni solide e emozionanti alla ricerca sonora che aveva caratterizzato alcuni dei suoi lavori precedenti. Ottima conferma anche per Joan Shelley il suo terzo, omonimo [No Quarter] album, ancora una volta a cavallo tra folk e country ne certifica la maturità artistica ed è pieno di canzoni riuscitissime.

3. Indie pop, Indie Folk, Shoegaze, Psych Pop, Wave…: Florist – If Blue Could Be Happiness
In questa categoria estremamente eterogenea ho inserito le band che quest’anno più mi hanno coinvolto ed emozionato. E non potevo non cominciare dai Florist con il loro If Blue Could Be Happiness [Double Double Whammy], il mio disco dell’anno, se proprio dovessi sceglierne uno.
I Florist vengono dalle Catskills Mountains, sono in tre ma è Emily Sprague a scrivere tutti i testi (e che testi) e le canzoni. La loro delicata miscela di folk e indie-pop acustico dalla spiccata propensione lo-fi, fatta di melodie quasi impalpabili e strumentazione minimale, giunge all’apoteosi nel secondo lavoro della band, supportata da liriche poetiche e malinconiche (dubito che in questo campo troverete di meglio quest’anno) che nella loro semplice schiettezza colpiscono duro nella parte più tenere del nostro cuore. La loro musica schiva e mai invadente è quanto di meno adatto ai nostri tempi. Forse anche per questo li amo così profondamente.

Il 2017 è stato caratterizzato da grandissimi ritorni, con album quasi sempre di livello eccellente. Il canto del cigno dei Piano Magic è uno dei ritorni più convincenti. Uscito a gennaio, il dodicesimo album della band di Glen Johnson, emblematicamente intitolato Closure [Second Language], ripercorre in maniera ispiratissima i temi e le sonorità, siano esse romantiche e decadenti o sferzate da gelide folate elettroniche, che sono sempre state care alla band con una nuova manciata di canzoni indimenticabili.
Altrettanto positivo è il ritorno di The Clientele. Music For The Age Of Miracles [Merge] sembra, in maniera del tutto non premeditata, essere una sorta di summa dei suoni e delle espressioni che hanno accompagnato l’evoluzione stilistica della band. Pur non rinnegando, infatti, le produzioni più raffinate e pop degli ultimi, splendidi, lavori tornano prepotenti le sonorità brumose degli esordi, insieme a quella sensazione di indistinto smarrimento che pervadeva l’ascoltatore delle loro prime raccolte.
Se sono passati sette anni per i Clientele ce ne sono voluti dieci ai Sodastream per tornare sulle scene con Little By Little [Self Released], un lavoro che suona fresco e originale, intenso, ispirato, quasi fosse un album d’esordio. L’inconfondibile mood del duo australiano, fatto di strumentazione acustica e vibranti ballate crepuscolari, è sempre presente ma l’album si muove coraggiosamente anche verso atmosfere più disagevoli e stranianti così da risultare confortevole e intimo eppure sottilmente inquietante.
Ritornano da ancora più lontano gli Slowdive eppure il loro album, omonimo [Dead Oceans], a riaffermare il loro regno assoluto sulle sonorità shoegaze che sono ritornate di gran moda e attualità, è freschissimo e le capacità di scrittura di Neil Halstead permettono alla band inglese di elevarsi ancora una volta una spanna sopra i concorrenti, che spesso hanno i suoni, ma non le canzoni. Qui di canzoni che non si dimenticano facilmente ce ne sono a profusione.
E’ una sorta di ritorno anche quello dei Lean Year, il nuovo progetto di Rick Alverson e Emilie Rex. La seconda, abbandonata la carriera accademica, è alla prima prova discografica, mentre Alverson mi aveva fatto innamorare profondamente con i numerosi lavori pubblicati tra il 96 e il 2003 con Drunk e Spokane. Lean Year [Western Vinyl], partendo dal folk disadorno cui Averson ci aveva abituato in passato, ne arricchisce la palette sonora con lievi tocchi elettronici, arrangiamenti quasi jazzati, atmosfere cupe tra il barocco e l’ambient music. Accurato negli arrangiamenti, originale e intensissimo, questo esordio, più che il ritorno di Alverson, è il promettente inizio di un nuovo percorso.
I Big Thief di Adrianne Lenker con Capacity [Saddle Creek] hanno “questa capacità di mantenere una tensione eccezionale fra le note ed arrivare a non farla esaurire mai. Ogni ascolto, ogni passaggio, ci induce a riascoltare ogni brano e l’album nella sua totalità” (cit. Giacomo Mazzilli). Dubito che saprei dirlo meglio. Uno degli album più belli ed inquieti che ho ascoltato quest’anno.
Gli svedesi Agent Blå sono un quintetto di Göteborg formato da adolescenti il cui omonimo [Luxury] album d’esordio è a dir poco entusiasmante, pieno com’è di…entusiasmo e canzoni indie-pop orecchiabili, eppure intensissime e oscure. Un po’ come se i giovani musicisti della band fossero nella fase di scoperta di tutti i classici post-punk e shoegaze e non potessero fare a meno di introiettarli nelle loro travolgenti composizioni.
I canadesi Alvvays con il loro secondo lavoro spazzano via tutti i paragoni (giusti e necessari) che erano venuti in mente ascoltando il loro primo bellissimo album. Per questo motivo “Antisocialites” [Polyvinyl] è ancora meglio del precedente. Pieno di canzoni dall’impatto immediato e difficili da togliersi dalla testa, eclettico nei suoi rimandi all’indie rock, all’indiepop e ai Fleetwood Mac (!) è un lavoro godibilissimo e dai testi decisamente curati e profondi.
Con il loro primo album nel 2014, The Luxembourg Signal hanno trovato grandi consensi tra i fan dell’indie-pop per il loro squisito gusto melodico, le voci angeliche e le chitarre piene e coinvolgenti. La band della quale fa parte anche Beth Arzy (Aberdeen, Trembling Blue Stars, Jetstream Pony) con il nuovo album, Blue Field [Shelflife], conferma tutte le proprie qualità, risultando ancora più matura e variegata nelle scelte sonore. In una canzone c’è anche la voce di Bobby Wratten (The Field Mice, Trembling Blue Stars). Non potevo non innamorarmi.
Secondo album anche per gli americani (ma capitanati dall’inglese Phil Sutton) Pale Lights. Il loro “The Stars Seemed Brighter” [Kleine Underground], usicto solo da una settimana, è talmente perfetto con le sue canzoni immediate e convincenti e con il riuscitissimo mix sonoro che, pur con grande personalità, richiama al contempo Lloyd Cole & The Commotions, The Go-Betweens e i Felt (del secondo periodo), da aver fatto immediatamente breccia nel mio cuore. Sono certo possano fare lo stesso nel vostro.
I compagni di etichetta The Bv’s con il loro esordio Speaking From A Distance [Kleine Underground 2017] sono una delle sorprese più gradite dell’anno in ambito indiepop. non è facile descrivere l’album, senza citare la Sarah Records, la wave, i Field Mice. Allora lo faccio (l’ho appena fatto, in effetti) e concludo che chiunque ami le sonorità appena citate non potrà fare a meno di ascoltare e prendere a cuore questo album.
Discorso molto simile può farsi per l’ottimo esordio degli americani Star Tropics, Lost World [Shelflife] anche se le loro melodie sono spesso più cristalline e solari. I punti di riferimento del quartetto di Chicago sono gli Smiths e tutte le band che tra fine anno 80 e inizio anni 90 hanno animato la scena indie pop inglese: chitarre jangly accattivanti, melodie brillanti e l’infinita dolcezza delle voci maschile e femminile che si fondono insieme mirabilmente.
I cinesi Butterbeer, con l’esordio Obliviate [Boring Productions] dimostrano ancora una volta che l’indiepop non conosce confini. La Boring Productions, la fantastica etichetta indiepop cinese con sede a Shenzhen ha dato alle stampe questo album, con otto canzoni e una si chiama Listening To Another Sunny Day Makes Me Forget You. Devo dilungarmi? I Butterbeer sono un duo formato da Jovi (già negli Atta Girl) e Rye (nei Chestnut Bakery) e l’album era stato registrato due anni fa, ma intanto l’indiepop, oltre a non avere confini, è anche fuori dal tempo.
Le Girl Ray, tre diciannovenni terribili di Noth London, hanno esordito con Earl Grey [Wichita]. Canzoni che parlano di adolescenza con un piglio profondo e inaspettatamente adulto, così come inaspettata è la loro complessità strutturale che spesso si nasconde dietro l’immediatezza del impatto sonoro. Un album brillante e introspettivo, coraggioso ed evocativo dove originalità e ambizione convivono con melodie e ganci dalla presa rapida.
Dite tutto quello che volete, ma l’esordio omonimo [Partisan] dei Cigarettes After Sex di Greg Gonzales fa a perfezione il suo dovere con la raffinatissima miscela di romantico dream pop, chitarre melodiose e voci sussurrate. E’ vero: la voce di Gonzales è monocorde e le soluzioni sonore sono pressoché sempre le medesime, eppure quelli che sembrano i difetti dell’album ne divengono i punti di forza: i ritmi sempre languidi, con i bassi rotondi e carezzevoli, lasciano che il suono delle chitarre e delle tastiere e la cantilena di Gonzales siano cullanti, rassicuranti, avvolgenti.
The Granite Shore, la band di Nick Halliwell (titolare della Occultation) torna con “Suspended Second” [Occultation], dichiaratamente più pop e politicizzato dell’esordio. Influenzato in egual misura dalle vicende politiche che hanno coinvolto la Gran Bretagna e dall’amore (segreto?) di Halliwell per gli ABBA e per il pop meno sofisticato, è un lavoro nel quale i Granite Shore dimostrano di saper scrivere canzoni pop di grande spessore ma dall’impatto immediato e di eccellere nelle ballate dal vago sapore sixties.
Notevolissimo l’esordio degli Spinning Coin da Glasgow. “Permo” [Geographic] si muove tra atmosfere post punk e indiepop, con una particolare attenzione alla costruzione delle canzoni che risultano orecchiabilissime anche nel loro essere anticonvenzionali.
A proposito di ritorni, ottimo anche quello degli inglesi Flotation Toy Warning. The Machine That Made Us [Talitres] arriva a dodici anni dall’esordio ed è un insieme unico di piacevoli atmosfere malinconiche e stranianti fatte di orchestrazioni elettroniche, percussioni glaciali, campioni in loop e seducenti note d’organo. Ritorno inatteso e davvero graditissimo anche per il duo inglese The Last Dinosaur. The Nothing [Naim 2017], che arriva dopo sette anni dall’esordio, Hooray For Happiness, a metà strada tra folk e post rock, con rimandi agliHood, ai Talk Talk, ma anche a Nick Drake e ai Flaming Lips più eterei, è un patchwork affascinante e pieno di influenze eppure personalissimo, emozionante e coinvolgente.

– Post Rock, Ambient, Classica Contemporanea, Musica Strumentale: Angèle David-Guillou – En Mouvement
Quelli qui riuniti, in maniera piuttosto arbitraria, sono ambiti musicali che mi affascinano moltissimo ma che non riesco davvero ad approfondire come vorrei. In ogni caso il 2017 mi ha dato grandi soddisfazioni. Innanzitutto con En Mouvement [Village Green] di Angèle David-Guillou (Klima, nonché a lungo voce di Piano Magic), già conosciuta come compositrice grazie a “Kourouma” (2013). Ma se in quell’album c’era solo il pianoforte qui l’approccio colto della compositrice francese è proiettato alla ricerca di soluzioni sonore meno minimaliste, grazie all’uso di una strumentazione più ricca e a scelte compositive più dinamiche e coraggiose, pur senza rinunciare ad atmosfere romantiche ed emotive. Uno splendore.

Anche in questo ambito il 2017 è stato un anno ricco di ritorni. Su tutti quello dei canadesi Godspeed You! Black Emperor che, con Luciferian Towers [Constellation] sono tornati ai livelli degli esordi, arricchendo il loro suono di passaggi più meditati e quasi sentimentali, evitando in ogni caso di abiurare il loro credo di band militante e contro il sistema. Essere ancora rilevanti, dopo tanti anni, è un merito enorme. E suscitare ancora certe emozioni lo è ancora di più.
Ritorno alla forma migliore anche per i Balmorhea. In Clear Language [Western Vinyl], evitando di ripetersi con il rischio di diventare stucchevoli (e obsoleti) la band americana rivisita il proprio suono e nei dieci brani, quasi tutti piuttosto concisi, ritrova l’approccio minimale degli esordi, rivisitandolo in maniera originale e avvincente.
Ennesima conferma anche per i Mogwai. Anche se Every Country’s Sun [Rock Action] non è il loro album migliore, gli scozzesi hanno una classe immensa e ad ogni nuova prova sfornano brani che rimarranno nel loro repertorio a fianco dei capolavori di qualche anno fa. Appena crediamo che non possano dire qualcosa di nuovo, ci smentiscono puntualmente.
Gli Hammock ci hanno abituato ad album lunghissimi e, benché di alto livello qualitativo, spesso sfiancanti. “Mysterium” [Hammock Music] è una splendida eccezione. Concepito all’indomani della morte del nipote di Marc Byrd dimostra come la musica possa essere una risposta terapeutica alla tristezza e alla sofferenza. È un album oscuro, cupo che, tuttavia, si rifiuta di crogiolarsi nel suo stesso dolore. Una spinta, dal fondo, verso la speranza.
Se non avessi avuto qualche problema “professionale” con la sua autrice avrei salutato Like Author, Like Daughter [Whited Sepulchre], l’album di Madeline Johnston a nome Midwife, come uno dei migliori dell’anno. Il suo suono lo-fi che sorprendentemente si avvicina allo shoegaze, le languide e ovattate risonanze, le canzoni sospese a mezz’aria, Like Author, Like Daughter è un lavoro affascinante e coinvolgente, ma al contempo molto meno etereo e fumoso rispetto alle precedenti produzioni dell’artista del Colorado. Mettendo da parte gli attriti, uno degli album migliori dell’anno.
Lo scozzese Andrew Wasylyk ha scritto con Themes For Buildings And Spaces [Tape Club] un album di cartoline musicali che descrivono la sua Dundee. Difficile non rimanere ammaliati dalle sue brevi e spesso malinconiche composizioni strumentali nelle quali l’uso dei fiati è fondamentale. Un album quasi perfetto, ricco e infinitamente gratificante.
Quando Sylvain Chauveau comincia a cantare (con la sua voce che ricorda in maniera evidentissima David Sylvian) è sempre amore. Post-Everything [Brocoli], oltre a un paio di cover straordinarie, contiene un lunghissimo brano di apertura (in cui compare Chantal Acda) e uan serei di deliziosi frammenti sonori, come al solito a cavallo tra songwriting minimale e sperimentazione sonora. Un altro tassello in una carriera costellata di produzioni eccellenti.
Avevo scoperto The Green Kingdom, il progetto di Michael Cottone, con un album, Harbor, dalle sonorità ambient drone ispirate addirittura ai Cocteau Twins. The North Wind And The Sun [Lost Tribe Sound] apre scenari inediti per l’artista di Detroit che, utilizzando strumentazione prettamente acustica, regala melodie delicate e oniriche che vagheggiano il passato e il fragile rapporto con la natura.

– Progetti Estemporanei: Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly, James McAlister – Planetarium
Uno dei lavori che mi ha maggiormente assorbito è stato, senza dubbio, il progetto Planetarium [4ad] che ha visto coinvolti Sufjan Stevens, Bryce Dessner, Nico Muhly e James McAlister. Ispirato al sistema solare e di difficilissima classificazione (motivo per il quale ho “inventato” una categoria a parte), il corposo “concerto cosmico” dell’estemporaneo quartetto presenta lunghi brani strumentali articolati e variati, alternati a canzoni più canoniche, nelle quali viene fuori tutta la maestria di Stevens, coadiuvato dai suoi sodali. Sebbene l’eccesso di suoni e di idee rischi a volte di diventare stancante e l’abuso dell’autotune (o è il vocoder?) di snaturare la soave voce di Sufjan, l’album non si perde mai, grazie a picchi melodici e compositivi continui. Tra ambient, musica cosmica, folk, elettronica, rock e chi più ne ha più ne metta, “Planetarium” scuote i sensi, costringe all’attenzione e, a volte, fa cadere in deliquio (soprattutto quando Sufjan canta le sue ballate, devo ammetterlo).

Sempre in tema di progetti estemporanei ho trovato molto ben riuscito Poems Of Despair [Kaip], concepito e scritto dal trio Forslund, Sigurðsson, Åhlén: l’eterea musa svedese ambient-folk Sara Forslund, il compositore islandese Larus Sigurðsson e il cantautore David Åhlén, che vive in una comunità monastica sull’isola baltica di Gotland, hanno unito su impulso di quest’ultimo orze e sensibilità per un’opera che si colloca a metà tra musica e poesia. Le atmosfere di riflessivo misticismo, che paiono provenire da una dimensione spirituale distante dai luoghi, dai tempi e dai ritmi della quotidianità; anche di quella musicale, lo rendono un lavoro da non trascurare.
Last, but not least come dicono quelli bravi, Ojalá [Bella Union], l’album di Lost Horizons progetto che l’ex Cocteau Twins (e boss della Bella Union) condivide con il batterista Richie Thomas dei Dif Juz, con il quale aveva in precedenza collaborato in alcuni brani dei This Mortal Coil. Con un approccio non lontano dall’esperienza This Mortal Coil e coadiuvato da cantanti come Marissa Nadler, l’ex frontman dei Midlake Tim Smith, Ghostpoet, Karen Peris degli Innocence Mission, l’ensemble Lost Horizons presenta ben 15 composizioni dotate di una profonda malinconia di fondo, che spaziano dal soul raffinato, al rock più oscuro e sofisticato, fino ad atmosfere sognanti ed eteree, ma che riescono, grazie alla scrittura lineare di Raymonde, al suo onnipresente pianoforte e ad arrangiamenti quasi sempre molto misurati ma incisivi, a mantenere una coerenza stilistica d’insieme.

Chi è arrivato alla fine di questo sproloquio vince un premio!

Pubblicità

4 pensieri su “Francesco Amoroso racconta il (suo) 2017

  1. Pingback: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2018 – Parte I | Indie Sunset in Rome

  2. Pingback: Sufjan Stevens & Angelo De Augustine – A Beginner’s Mind | Indie Sunset in Rome

  3. Pingback: Michael Head & The Red Elastic Band – Dear Scott | Indie Sunset in Rome

  4. Pingback: Le firme di TRISTE©: Francesco Amoroso racconta il (suo) 2022 | Indie Sunset in Rome

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...