Tra i tanti cambiamenti che l’anno 2000 ha portato con sé c’è stata anche la possibilità, per quasi tutti, di scaricare musica da internet gratuitamente (più o meno legalmente).
Certo avere un brano di cinque minuti con un modem a 56K, richiedeva almeno un paio di ore e stare collegati alla rete per ore era molto costoso e teneva la linea telefonica occupata, ma la passione per la musica spingeva anche a queste follie.
Passavo pomeriggi a scaricare, dal computer del mio posto di lavoro (che, ci tengo a sottolinearlo, pagavo di tasca mia), brani di artisti che non conoscevo, per poter fare, poi, acquisti più ponderati.
Non ricordo come mi imbattei in Songs: Ohia (il nome del progetto derivava in parte da “Ōhi’a lehua”, un tipo di fiore hawaiano), ma l’attrazione fu immediatamente fatale, tanto che avrò perso un mese (e speso un capitale) per scaricare suoi brani in maniera casuale da Napster.
Fu facile, invece, convincermi ad acquistare tutto quello che avrei potuto trovare della oscura band di tale Jason Molina.
Così, tra le altre cose, entrai in possesso del cd The Lioness, che, non solo conteneva alcuni delle canzoni che più mi avevano colpito tra quelle scaricate, ma era stato scritto e inciso a Glasgow in collaborazione con gli Arab Strap. Uscito all’inizio del 2000, l’album “scozzese” di Jason Molina non era stato salutato dalla critica con grandissimo entusiasmo, visto che molti gli preferivano il suo predecessore Axxes & Ace, a detta di tanti più vibrante e immediato di The Lioness (del resto non era facile superare un lavoro che conteneva due brani inarrivabili come Love Leaves Its Abuser e Captain Badass). Per quanto amassi Axxes & Ace, tuttavia, non la pensavo allo stesso modo.
Molina, personaggio sfuggente e non facile da inquadrare, proveniva dall’Ohio suburbano, ma aveva mosso i suoi primi passi nel mondo della musica all’Oberlin College dove, dopo una sbandata per l’hard rock e l’heavy metal, aveva cominciato a scrivere la sua musica e a innamorarsi di Will Oldham e dei suoi progetti che rivisitavano la tradizione country e folk americana.
Fu proprio Oldham a produrgli il primo singolo. Da allora, in quindici anni, Jason fece uscire 19 album e numerosi singoli ed e.p., tra Songs: Ohia, Magnolia Electric Co. e lavori a proprio nome. La sua tragica fine, distrutto dall’alcol da cui era diventato, pare nel giro di poco tempo, del tutto dipendente, lo ha fatto assurgere a vera e propria figura di culto degli anni a cavallo tra la fine del novecento e l’inizio del nuovo millennio, ma molti, per fortuna, si erano già accorti di lui e delle sue canzoni semplici, dirette e piene di pathos.
The Lioness è un esempio perfetto del modo di scrivere di Molina: pochi accordi, lenti e cadenzati, spesso ripetuti quasi come un mantra e una voce unica, acuta e profondissima che, pur non educata, riesce a scuotere le corde più intime dell’ascoltatore. Le nove canzoni che lo compongono sono scarne e vibranti ballate elettroacustiche intrise di lirismo e interpretate con sconvolgente intensità.
Ed è proprio questa cifra personale a rendere unico l’album (e la produzione tutta di Songs: Ohia) che, pur muovendosi su canoni musicali piuttosto classici, sempre tra folk, country e blues, vicini a quelli del suo mentore Will Oldham, riesce a rappresentare una entusiasmante diversione (laterale, se non in avanti) rispetto a tali punti di riferimento.
Caratterizzati da una tormentata introspezione, dai testi promana una così forte tensione interiore che la voce di Molina sembra sempre sull’orlo di spezzarsi ed essere sopraffatta. Le dolenti ballate (Tigress, Being In Love, Lioness, Coxcomb Red) fanno emergere una visione dell’amore romantica (“Whether you save me/Whether you savage me/Want my last look to be the moon in your eyes”) ma al contempo tragica e ineluttabile (“You are alert as a tigress at a common table with her fate/You can almost taste it/We’ll be gone by morning or be together by then”), che oscilla tra la disperata rassegnazione (“We are proof that the heart is a risky fuel to burn”) e la voglia di lottare con tutte le proprie forze (“And I wanted that heat so bad/I could taste the fire on your breath”), anche a costo della vita stessa (“Want to feel my heart break if it must break in your jaws/Want you to lick my blood off your paws”).
Una sorta di Cormack McCarthy dell’alt-country, se mi si passa il paragone ardito.
E’ nella combinazione perfetta di tutti questi elementi che risiede la ragione per la quale The Lioness è l’apice della carriera di questo artista schivo e profondamente vero e umano (e, per questo, terribilmente fragile e vulnerabile).
Ho avuto l’occasione di incontrare Jason Molina personalmente due volte. La prima, credo fosse il 2003, sì mostrò affabile e amichevole. Era felice di aver trovato a Roma alcuni appassionati, come me e Raffaello, che conoscevano tutti i suoi lavori e che lo seguivano tanto assiduamente. Ci invitò nel piccolo camerino (eravamo al Big Mama di Roma) e chiacchierammo a lungo. E, alla fine, mi chiese quale fosse il mio album preferito tra i suoi.
Gli risposi The Lioness, senza esitazione, così lui volle il cd (li avevo portati con me, da buon fan, per farmeli autografare) e sullo sfondo viola con le palme della copertina, disegnò con il pennarello uno spicchio di luna e alcune stelle, scrivendo “Thank You” sopra il titolo.
La seconda volta, invece, parecchi anni più avanti, dopo un concerto sofferto, suonato sotto un cappellaccio da cowboy calato sugli occhi, ci salutò frettolosamente e si allontanò quasi subito, ormai irrimediabilmente perso dietro chissà quali demoni. Ne fui davvero dispiaciuto. Avrei voluto dirgli quanto gli fossi grato per essersi donato a noi senza riserve e senza rete di protezione. Avrei almeno voluto ricambiare i suoi ringraziamenti.
Non fu più possibile.
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