William Tyler – Goes West

Agnese Sbaffi per TRISTE©

“Gennaio è stato un anno lunghissimo” (devo averlo letto qualche giorno fa in giro su facebook) e io l’ho passato per metà a letto influenzata.

Dai traballanti e ariosi infissi in legno dell’appartamento in cui vivo si sente forte il fruscio degli alberi scossi dal vento. O così ascolto immaginando il mondo fuori, confondendo il rumore delle ruote delle automobili che passano sulle pozzanghere.

Una volta, a casa di un’amica che affaccia sul deposito Atac di Piazzale Prenestino, scambiai il rumore di una leggera pioggia estiva mista al traffico di treni e macchine, col gorgoglìo di ruscelli, fontane e cinguettii di uccelli di un tipico giardino tropicale del Sud America.

Stupefacenti apparizioni sonore che illuminano giorni incredibilmente grigi.
 E come un’inaspettata illuminazione arriva anche il quarto album da solista di William Tyler, ex Lambchop e Silver Jews: Goes west, uscito il 25 gennaio per Merge.

La mano, che accarezza e pizzica le corde di una chitarra acustica, colora di incalzante ottimismo dieci splendide immagini americane, partendo dalla tradizione country-folk come argomento positivo. Animate dal gesto esperto, ma mai virtuosistico, le vibrazioni delle corde costruiscono melodie che evocano scenari dettagliati e suggestivi anche senza l’uso di parole.

La band tratteggia, insieme a Tyler, un paesaggio ampio e strutturato, non banale e mai noioso. Alpine Star e Fail Safe introducono a un luminoso spettacolo di 37 minuti che è il viaggio verso ovest che Tyler compie da Nashville, Tennessee, a Los Angeles, California dove attualmente vive. Complessi arrangiamenti corali e delicate trame liriche si fondono in un’incoraggiante armonia che si imprime nella memoria in un attimo.

Passaggi melodici raffinati e carezzevoli (Call me when I’m breathing again, Rebecca) sembrano aprire le imposte di una immaginaria finestra sugli spazi infiniti dell’entroterra americano. Come un lampo che rischiara una grigia domenica pomeriggio si avvicendano ballate romantiche e sentimentali (Venus in Aquarius) a quadri melodici più meditativi (Man in a hurry), dove la delicatezza della chitarra acustica incontra, in un pacifico equilibrio, il suono epico e ampio dell’accompagnamento elettrico.

A chiudere questo colorato e appassionato viaggio americano, contemplativo e rassicurante, c’è Our lady of the desert, un elegante e suggestivo rimando alla tradizione country-western americana, grazie anche alla presenza di Bill Frisell.

Aspettando che il cielo, dalla cornice della mia finestra, si colori davvero mi viene solo da dire: when nothing goes right, Goes West!

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