Francesco Amoroso per TRISTE©
Ieri mi trovavo, per lavoro, nella cittadina dove ho passato la mia adolescenza e dove torno regolarmente da quando, venti anni fa, l’ho lasciata. Di solito frequento sempre le stesse zone e sono piuttosto indaffarato. Ieri invece, dovendo ammazzare un po’ di tempo tra un impegno e l’altro, mi sono ritrovato, (forse) per caso, a guidare nella zona dove sorge l’edificio nel quale ho frequentato il primo anno delle scuole medie. E’ composto da due bassi corpi di fabbrica, situato alla fine di una strada senza uscita e chiaramente destinato, in origine, ad abitazione. Probabilmente non ci passavo da quando, alla fine di quell’anno, ci trasferimmo nella nuova sede, appena costruita.
La giornata era calda e luminosa, quasi primaverile. Mi è sembrato che lo stabile avesse ripreso la destinazione d’uso per cui era nato, ma, essendo tarda mattinata, non c’era molto movimento: il postino sullo scooter, un signore anziano che mi ha squadrato sospettoso, un paio di persone che spostavano delle scatole in uno dei garage (sarà stata in uno di quei garage la mia aula?).
Ci sono passato davanti in macchina. Ho fatto inversione alla fine della strada e sono passato di nuovo. Nulla lasciava più sospettare che verso quell’ora, ogni giorno di quasi quaranta anni fa, una cinquantina di bambini urlanti si riversavano in quello spoglio cortile di cemento. Si sono affollate nella mia mente tante immagini diverse (il compagno che mi ruba una figurina dall’album dei calciatori, quella volta che, senza aver davvero scritto il riassunto, lo leggo comunque all’insegnante, la mia compagna Federica, che a 11 anni mi sembra già una donna fatta, Riccardo che mi picchia senza che io, pur dolorante, reagisca in alcun modo)…
Non ho spento la macchina, non ho neanche accostato al marciapiede e messo il motore in folle. Mi sono allontanato subito, colpito da una strana sensazione che è difficile descrivere. Non credo si trattasse di nostalgia del passato o di malinconia per qualcosa che mi sono irrimediabilmente lasciato alle spalle, non solo. Esistono sentimenti e sensazioni cui non è possibile dare un nome e che non abbiamo la possibilità di descrivere.
O forse sì.
Quando le parole vengono meno si può sopperire con la musica. Non la mia, naturalmente, ma si può prenderla a prestito.
Provate a rileggere i primi due paragrafi ascoltando “Olympic Girls”, il terzo album di Tiny Ruins e, forse, anche uno scritto banale e disadorno, che da solo non riesce a trasmettere nulla, vi apparirà pregno di significato.
“Olympic Girls” è l’album con il quale Hollie Fullbrook ha portato a definitivo compimento il passaggio di Tiny Ruins da progetto solista a vera e propria band, già iniziato con l’incantevole (e da me amatissimo) “Brightly Painted One”.
E’ un lavoro di folk crepuscolare giocato sui sentimenti in maniera sottile e poco appariscente, nel quale le emozioni sono veicolate da storie e situazioni a prima vista quotidiane e semplici. Eppure, grazie anche alla crescita esponenziale del songwrting della Fullbrook, che sfoggia per l’occasione alcune tra le sue più incantevoli e immediate melodie, è un album intensissimo, profondo e immensamente coinvolgente nel quale la voce di Hollie, nonostante le sue interpretazioni vocali siano votate all’understatement, dimostra l’incredibile espressività e personalità di un’artista che riesce a comunicare e a mettere a nudo la propria anima senza la necessità di sembrare tormentata o maledetta.
Chi avrà voglia di ascoltarlo con attenzione e sarà disposto a lasciarsi incantare e irretire, scoprirà un lavoro superbo, nel quale gli arrangiamenti, caldi e rigogliosi, dipingono paesaggi sonori quieti, intimi e luminosi, spingendo i brani di Tiny Ruins anche su sentieri coraggiosi e fino a oggi inesplorati. Caratteristica di tutte le composizioni rimane, tuttavia, un vibrante sentimentalismo, sommesso ma non timido, che, adornato della nuova lucente veste sonora, riesce a brillare in tutta la propria schiva magnificenza.
La sublime “School Of Design”, che cresce e si svela a ogni nuovo ascolto, con il suo semplice, quasi casuale, romanticismo, ne è un esempio perfetto (e quell’improvviso cambio di nota nel cantato tra “I was struck…” e “...by a feeling” è il passaggio più emozionante degli ultimi dieci anni di musica folk), ma anche la ballata bluesy e sincopata “How Much”, l’elegante “Holograms” che rimanda, con grande classe, alle sonorità dei seventies, o la gentile psychedelia di “One Million Flowers”, uno dei brani più articolati e originali dell’album, dimostrano la straordinaria maturità compositiva e interpretativa raggiunta da Hollie.
Profondo e delicato, evocativo, calmante e luminoso, “Olympic Girls” è un lavoro da assimilare nota dopo nota, meraviglioso e permeato dalla poesia del quotidiano, quella che maggiormente am(iam)o.
(Mi scuso per essermi dilungato e aver abusato della vostra pazienza, ma mi trovo, spesso, di fronte a sentimenti che non mi è facile descrivere. Con “Olympic Girls” mi sono trovato esattamente così, nell’impossibilità di trasmettere a parole anche solo una piccola parte delle travolgenti – pacatamente travolgenti – emozioni che l’ascolto di questo disco, ogni volta, mi provoca).
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