
Francesco Amoroso per TRISTE©
“Ovunque, nel corso dei secoli, la mancanza di originalità è stata stimata la
prima qualità e la migliore garanzia dell’uomo assennato, pratico e dotato di senso
degli affari, per lo meno il novantanove per cento delle persone (dico per lo meno)
l’hanno pensata così, e solo uno su cento, seppure, ha avuto ed ha un’opinione
diversa.“
(Fedor Dostoevskij – L’idiota)
È possibile che il buon Fedor, con questa affermazione, che apre la terza parte de L’Idiota, stesse giustificando se stesso e la sua scarsissima propensione agli affari, ma, quale che ne fosse il motivo, non c’è dubbio che è una bella consolazione sapere che uno dei più grandi scrittori di sempre la pensi un po’ come me. Da sempre, infatti, sono dell’opinione che, in ambito musicale (perché, in fondo è di questo che qui si parla), il successo e la ricchezza possano essere raggiunti ormai quasi esclusivamente da chi, molto più del talento e della passione, è dotato di senso pratico, di un certo cinismo e di nessuna originalità.
Qualità (?) queste che ritengo scarseggino ad artisti che amo profondamente. Come Tiny Ruins.
Quando Hollie Fullbrook, nel 2014, fece uscire il suo secondo magnifico album, Brightly Painted One, per un’etichetta importante come la Bella Union, in tanti (me compreso) pensarono che quello sarebbe stato il trampolino di lancio per un consistente successo anche di pubblico che avrebbe portato all’artista neozelandese -e alla sua band- il riconoscimento, di fama ed economico, che meritava, alla pari di altre giovani artiste che, in quegli anni stavano emergendo e affermandosi.
Ma, nonostante l’album avesse ottenuto un notevole riscontro critico e il nome di Tiny Ruins avesse cominciato a girare insistentemente (anche grazie alla collaborazione, nel brano Dream Wave, con David Lynch), Fullbrook, dimostrando evidentemente quella mancanza di senso pratico e degli affari che a quanto pare è inevitabile se si possiede talento e originalità -e una buona dose di dirittura morale- ha aspettato cinque anni per dare un seguito a quel lavoro, ritenendo più importante seguire la propria ispirazione che le pressanti regole del mercato.
Tuttavia quando, nel 2019, è arrivato l’agognato seguito di Brightly Painted One, Olympic Girls, non sono stati pochi a pensare che, nonostante l’occasione persa cinque anni prima, un album di così straordinaria bellezza avrebbe, quanto meno, consentito a Tiny Ruins di consolidare la propria posizione nell’ambito della musica alternativa e di far conoscere la sua musica a un pubblico più vasto.
Che ciò sia avvenuto o meno, quel che è certo è che Hollie Fullbrook se n’è, nuovamente, infischiata, e, ancora una volta, ha lasciato passare un tempo eccessivo (in termini di music business, quantomeno) prima di dare un seguito a quel brillante capolavoro minore (minore solo in termini commerciali).
Così, dopo nove anni e due album che avrebbero potuto lanciare Tiny Ruins nell’empireo della musica folk rock alternativa, Fullbrook e compagni si ritrovano a ricominciare praticamente da capo.
Il loro Ceremony è un album che esce quasi in sordina, senza grande clamore o particolare attesa e che, almeno in queste prime settimane di disponibilità, non ha ricevuto grandissima attenzione neanche da parte della critica più attenta.
È davvero un peccato. Perché (e non mi sarei aspettato nulla di diverso) Ceremony è un album fantastico e una rara miscela di delicatezza lirica e sensibilità musicale.
Le undici canzoni che lo compongono sono scritte con una maestria, con un talento e con una eleganza nel tocco e nell’interpretazione per i quali la maggior parte degli artisti più in voga del momento anche in ambito indipendente, sarebbero pronti a uccidere.
Ancora una volta (e se due indizi fanno una prova, tre album sullo stesso livello non possono che dare una certezza definitiva) Hollie Fullbrook e della sua band abbracciano nella loro musica folk delicato, atmosfere dream pop e una carsica vena di gentile psichedelia e lo fanno grazie a composizioni solide e raffinatissime e ad arrangiamenti minimali eppure dettagliatissimi. un romanziere coltivato negli ultimi anni,
Se Olympic Girls era un album intensissimo, profondo e immensamente coinvolgente, ma popolato di personaggi visti da lontano (l’ex carcerato della title track) o di edifici vuoti (il capolavoro School Of Design), Ceremony è quanto di più personale Fullbrook abbia mai scritto, accentuando quel senso di intima connessione che è caratteristico del suono di Tiny Ruins.
Le sonorità e il mood dell’album sono mutevoli e passano con disinvoltura dall’intenso minimalismo Diving & Soaring, alla psichedelia di Dorothy Bay, dal ritmo di In Light Of Everything, all’incanto quasi country dell’organo Hammond di Dogs Dreaming.
Il suono è sempre profondamente radicato nel folk dei sixites e nel soft rock degli anni ’70, con le chitarre elettriche che ricamano, le ritmiche appena accennate e il basso puntuale e profondo.
Quando, come nella sublime The Crab/Waterbaby, che chiude il lavoro (ma che ne è stata la prima anticipazione), subentrano gli archi e un arrangiamento più articolato, l’album tocca l’apice del proprio struggente e quieto romanticismo. E così accade anche nella semplice melodia di Sounds Like che richiama da vicino il Nick Drake di From The Morning, o nelle dolcissima e struggente Dear Annie, con violoncello e archi.
Ceremony è una sorta di escursione lungo le coste rocciose del Little Muddy Creek e del porto di Manukau, vicino a Laingholm, West Auckland dove, nel 2018, Hollie Fullbrook e il suo partner si sono trasferiti: Dogs Dreaming è ispirata da una visita al faro di Manukau Heads al crepuscolo, The Crab / Waterbaby a una passeggiata lungo Little Muddy Creek, Dorothy Bay alle passeggiate con i cani nei dintorni della casa familiare.
A seguito di un aborto spontaneo, Fullbrook, nel tentativo di superare il dolore, ha scritto alcune poesie che ha poi rivisitato anche alla luce del matrimonio con il partner, dell’adozione di due cani e della riscoperta del territorio che la circondava. È questo il bagaglio emotivo che ha portato a Ceremony, un album che pur nascendo dal dolore e dal senso di solitudine, si evolve in maniera quasi catartica verso la condivisione, la compiutezza, la speranza. È stato quasi inevitabile, così, che, benché scritto e registrato già da tempo, sia stato pubblicato solo adesso, dopo la nascita del primo figlio di Hollie Fulbrook.
Ancora una volta, come accaduto nelle precedenti tre occasioni, il quarto album di Hollie Fullbrook e soci potrebbe non essere apprezzato e potrebbe non coinvolgere e sconvolgere gli ascoltatori disattenti, ma basterà immergercisi più a fondo per scoprire un mondo meraviglioso.
Ceremony è un album che racconta la confusione, la perdita, il distacco, per infine riconoscere e affermare la struggente bellezza dei percorsi imprevedibili della vita.
Non è un caso, forse, che parlando di questo album mi sia venuto in mente L’Idiota di Dostoevskij. È, infatti, il principe Miškin, l’indimenticabile protagonista del romanzo, a pronunciare la famosa frase “la bellezza salverà il mondo“.
Sarà pure pronunciata da un “idiota”, ma non possiamo che continuare aggrapparci a questa affermazione.
Affermazione Tiny Ruins, con le sue canzoni e i suoi album, non fa che corroborare ogni volta (ogni quattro o cinque anni…).