Alberta Aureli per TRISTE©
C’è qualcosa nella primavera, quando la primavera è già iniziata, quando non è più Marzo e Aprile sta finendo, c’è qualcosa che somiglia ad un’opportunità mancata, ad un’aspettativa delusa.
Era primavera di più quando l’aspettavamo solamente, quando le prime foglie verdi hanno iniziato a spuntare nei vasi dei nostri giardini, non c’è già più l’adrenalina delle prime sedie al sole, nei bar di Roma dove ogni stagione arriva in anticipo.
Ci sono invece più sguardi confusi che altro, menti vaganti in corpi fermi, al semaforo, sotto un platano alto, nelle vie del centro, era più primavera due settimane fa (lo diceva qualcuno proprio ieri). E c’è qualcosa che non torna anche nella luce gialla della sera che se ne va piano, troppo piano, trasformandosi in un’attesa ulteriore, nell’attesa che le stelle si accendano e i desideri tornino desiderabili, magari.
C’è più tempo, anche se il tempo se ne è già andato, e allora forse la notte breve non ci viene in aiuto.
È difficile Aprile quando non è più Marzo e già si possono tirare le somme su quello che è stato e su quello che resta. E se la vita non ha preso la direzione che volevamo, anche se non era una direzione precisa ma solo una passeggiata al sole, se i nostri piani sembrano incrociare un destino misterioso e neanche le stelle, in fine, ci hanno soccorso, è più facile, che quando il sole se ne va ci si ritrovi in un giardino in fiore a chiederci, che fine ha fatto Dio? Dov’è la giustizia dei cieli e la risposta alle nostre preghiere più o meno inconsce, quale è il disegno divino dietro ad ogni affanno?
Ma poiché le risposte, a volte, arrivano come regali anche sulla terra, troveremo probabilmente conforto in Oh My God, il quinto e attesissimo album di Kevin Morby che esce il prossimo 26 Aprile e che si occupa proprio di Dio, anzi, non solo di Dio.
Annunciando l’uscita a Febbraio ha rilasciato alcune dichiarazioni per chiarire il senso in cui questo concept album si sarebbe occupato di religione. Fra tutte mi sembra interessante quella che specifica il titolo, dice infatti che Oh My God è, secondo lui, un’espressione talmente frequente nella nostra vita quotidiana da rivelare un rapporto continuo anche se involontario con Dio. È un’espressione profonda anche se non identifica un vero Dio, e ancor meno un atteggiamento religioso: si tratta di un Dio percepito, una visione estranea alla religione, non riconducibile. Dice anche che mentre i suoi album precedenti erano pieni di colori, questo ha tentato di mantenerlo su poche e precise tonalità, come un opera di Keith Haring.
Kevin Morby è un cantautore elegante che si occupa del significato dell’anima mentre entra nella nostra in punta di piedi, in uno stato di grazia tale da poter affrontare con leggerezza anche la spiritualità. Oh My God, che verrà presentato come doppio vinile per Dead Oceans, mantiene le ispirazioni rock dei precedenti quattro album da solista, muovendosi tra i grandi classici di Bob Dylan e Leonard Cohen coniugati con grazia, in questo caso, a cori gospel e rituali.
Carry a glad song wherever I go/ Carry a glad song wherever I go/ Singing oh my God, oh my Lord/ Oh my God
Sospira con allegria in apertura nella title track, e puoi immaginare le dita di una mano muoversi sui tasti di un piano scordato, in una sala di provincia, luce e polvere, fino a quando un coro celeste inizia vibrare sulle note dei fiati blues.
Nelle successive due tracce, No Halo e Nothing Sacred / All Things Wild, uscite entrambi come estratti nei mesi passati, precisa la dimensione unica della sua scrittura, sospesa fino alla fine tra solennità e istinto fissando gli occhi sulla bellezza del mondo. E se niente è sacro e tutto è selvaggio, possiamo lasciarci andare, aprire di più i nostri cuori per amare ogni cosa, “Tutto ciò che facciamo è un casino/ Ma, dolcezza, che questo casino sia benedetto”.
A questo punto Kevin Morby è già riuscito a contagiarci. OMG Rock N Roll (versione rock’n’roll di Oh My God, appunto), uscito ad Aprile come ultimo estratto, è accompagnato da una nota stampa: “Questo pezzo è concepito per essere giocoso, a dispetto dell’importanza del soggetto. Più di ogni altra cosa, è una canzone che parla della violenza delle armi in America. Sutherland Springs, Vegas, Parkland… la lista si allunga ogni anno, riempiendosi di nuove città, nuove vittime innocenti e fondamentalmente non cambia nulla. Abbiamo tutti fatto pace con l’idea che ogni volta che usciamo di casa potremmo essere uccisi per colpa di qualcuno che non avrebbe mai dovuto possedere quel potere. La canzone è concepita per rispecchiare una tragedia pubblica, con il coro che insiste alla fine dei due minuti di durata. È un continuo rotolare, vivere la vita al meglio, quando improvvisamente la realtà va sottosopra e tutto quello che rimane da fare è pregare Dio di non morire”.
Calca sulle sue ingenuità con una voce da fanciullo in questa traccia, forse perché è l’innocenza che può rimettere al centro senso e umanità. Si fanno più profondi e intimi i toni in Piss River, una ballata affascinante accompagnata dallo strimpellare felice di un’arpa che trasforma una nota dopo l’altra il dialogo con la figura materna in una piccola favola dark, “Now I live on a boat that sits on a moat/ On top of piss river, outside your castle”.
Esplode di ironia in Congratulations (congratulations you have survived!) per arrivare alla bellissima I Want To Be Clean. Voglio essere pulito.
Possiamo essere angeli sulla terra accompagnati da note leggere e parole luminose, innocenti e capaci. Tutto ciò che facciamo è un casino, ma che questo casino sia benedetto, è quasi estate.
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