Fontaines D.C. – Dogrel

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Francesco Giordani per TRISTE©

A Federico,
indimenticabile compagno di sbronze irlandesi

I Fontaines D.C. vengono da Dublino, come noto. E Dublino è stata senza dubbio uno dei luoghi decisivi della mia vita, la città che probabilmente più di ogni altra mi ha insegnato a “disoccupare” il tempo per liberare l’immaginazione, sperimentando la vita dissipata del perdigiorno e del disperato.

Arrivavo in Irlanda formalmente per un periodo di studio della lingua inglese. Una giovane vedova dublinese, così gentile da stirarmi anche le camicie senza sovrapprezzo, mi aveva affittato una stanzetta di fronte al cimitero cattolico di Glasnevin, dove ancor oggi riposa cospicua parte del pantheon patriottico irlandese.

Studiare l’inglese non fu tuttavia la mia principale occupazione. Le mie giornate si sbriciolavano amabilmente, fra avventurosi (e quasi sempre solitari) vagabondaggi nei pub cittadini e attraversamenti di parchi, musei e librerie, sulla falsariga, a dire il vero un po’ maldestra, di Stephen Dedalus. Volevo riuscire ad incontrarmi, ad ogni costo.

Spendevo dunque interi pomeriggi a studiare le traiettorie delle anatre nei laghetti degli splendidi Giardini Botanici Nazionali (lì dove Ludwig Wittgenstein aveva forse iniziato ad appuntare le sue Ricerche Filosofiche), alternando quotidiane interrogazioni alla celeberrima statua del drammaturgo Brendan Behan – appollaiato come una sfinge celtica sulla sua panchina di bronzo – a non meno frequenti passeggiate nei giardini del Trinity College, in cerca di tracce anche minime di Samuel Beckett. Ancor oggi peraltro, nei momenti di difficoltà, mi domando: cosa farebbe adesso Samuel Beckett al posto mio? Vivevo così, joycianamente, la mia telemachia, o, per meglio dire, la mia personale ricerca di un Padre, di un Mito Fondatore. Perdevo il tempo, per ritrovare un senso.

E credo che anche i giovanissimi Fontaines D.C. abbiamo vissuto o stiano vivendo qualcosa del genere. Compagni d’etichetta e di palchi di quegli Idles che lo scorso anno, non senza una certa imprevedibilità, hanno saputo conquistarsi a suon di watt i cuori infranti dei non pochi nostalgici delle chitarre elettriche, questi cinque torvi e scapigliati Dublinesi approdano all’album d’esordio con il vento di stampa e media di settore già da tempo ben in poppa – cinque roboanti stelle istantanee su NME, per dirne una.

I Fontaines D.C. esibiscono un pedigree letterario di spessore, figlio legittimo del recente neo-realismo post-punk albionico, tutto bottiglie rotte e rumoroso strofinarsi di anfibi sull’asfalto della più cruda disillusione politico-esistenziale. Nell’ipnotico salmodiare apparentemente fuori metrica del cantante Grian Chatten risuona l’evidente magistero di Mark E. Smith (via Eddie Argos degli Art Brut, sentire Too Real, Liberty Bell – in odor di Vaccines- o Boys in The Better Land), unito però ad un gusto bozzettistico degno a tratti degli Smiths più pittoreschi (Roy’s Tune, Television Screens, o il bellissimo Lalala di The Lotts).

Il tutto scandito da una diffusa, sebbene ad un primo ascolto non troppo percettibile, vibrazione lirico-trobadorica che riporta alla mente le struggenti innodie dei Pogues e che il titolo dell’album Dogrel – “a low, or trivial, form of verse, loosely constructed and often irregular, but effective because of its simple mnemonic rhyme and loping metre”, si legge nell’Enciclopaedia Britannica – esplicita e ribadisce.

La ballata di congedo Dublin City Sky si rivela, in questo senso, fortemente emblematica: chi, come me, ha tanto amato Dublino e il suo mutevole cielo, teatro perenne di epifanie alcoliche e improvvisi lampi di rivelazione, non potrà che fermarsi ed iniziare a ricordare.

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