Francesco Giordani per TRISTE©
Le londinesi Goat Girl ci avevano trafitto il cuore da parte a parte con il loro album di debutto, giusto tre anni fa. Una formidabile cantilena art-punk metropolitana che, a risentirla oggi, non ha smarrito un solo grammo di quella sua grazia stordita, spesso ipnotica e come piacevolmente irrisolta in un languido girovagare ad occhi chiusi fra pop, soul e soprattutto psichedelia.
Goat Girl ci era parso già allora testimonianza fedelissima, in parole e suono, della rocambolesca quanto allucinata stagione britannica post-referandaria culminata poi drammaticamente nel 2020 con il disastro Johnson. Stagione di cui il disco costituiva una sorta di lentissima traversata, a bordo dell’ultimo double-decker bus notturno disponibile ma senza salvifica visione finale di un sole nascente sullo skyline odiato/amato di Londra.
Poco male. Le quattro ragazze immaginarie di Brixton non dismettono i loro colorati abiti barrettiani neppure in questo nuovo On All Fours e anzi continuano a dare libero corso poetico alle loro acidissime visioni pop, sempre intrise di marxismo apocalittico, femminismo sardonico e pittoresco futurismo sci-fi “all’inglese”, a ben vedere (basterebbe anche solo l’artwork di copertina) più Arancia Meccanica che 1984.
Il discorso, con l’inaugurale Pest, riparte esattamente da dove era stato interrotto, senza troppi spiegoni. Semmai, ad accentuarsi, è la vena apertamente cantabile della scrittura, come subito ribadito dai ganci melodici del bellissimo singolo Badibaba, affidato ad una triangolazione perfetta di basso, chitarra e synth, con innesto di un’iridescente coda noise-psych a sfumare il cosmico atto finale.
Flaming Lips, Deerhuner, Animal Collective, Stereolab: questo sarà il canovaccio del fanta-romanzo goatgirliano, dalle slegate dinamiche impro di Jazz (in the Supermarket) allo spectorismo onirico dell’incredibile Once Again, con i suoi effetti da b-movie ufologico scanditi da drum-machine che in P.T.S.Tea diventano videogioco subliminale in stile Beta Band. C’è poco da fare. Le Inglesi si sono impadronite della potenza immaginifica del loro suono, hanno imparato a tradurlo in disordinato repertorio di visioni sciamaniche e, per le orecchie, la ginnastica dell’ascoltare diventa ben presto suprema goduria del senso.
A seguire queste folli vestali sino in fondo, tenendo il passo danzante del loro effimero strologare, si esce sconvolti dalle sensazionali scoperte psico-sonore di Sad Cowboy (forse primo compiuto capolavoro della truppa, con tastierone cosmic house che non dispiacerebbe affatto agli ultimi Horrors), per poi slittare nel tira-e-molla radioheadiano di Closing In o nell’etereo doo-wop di Anxiety Feels, giù giù fino alle oasi beatifiche di Bang e Whrere Do We Go Home From Here? (domanda retorica, perché da un lavoro del genere nessun ritorno è garantito).
Che dire, dunque? Le Goat Girl ci regalano la loro mirabolante Arte del Sogno e in cinquantaquattro minuti si guadagnano di diritto la bandiera del miglior pop psichedelico coniato oggi in Inghilterra, in attesa di nuovi contendenti.
Gioia, gioia invincibile, per il cuore e per la mente.
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