Black Country, New Road – For The First Time

Emanuele Chiti per TRISTE©

C’è sempre una prima volta per tutto, come del resto c’è sempre un’ultima volta per tutto. C’è una prima volta in cui una persona decide di suonare uno strumento, o che i genitori impongano a quella persona di suonare quel tale strumento (e in quel caso spesso non va bene: potresti finire a suonare cose che non vuoi suonare perché è giusto così, la pressione sociale sin da piccolo ha voluto questo).
C’è una prima volta in cui un insieme di persone decide di formare una band e cominciare a suonare insieme. C’è una prima volta in cui quelle persone scelgono il nome della band, e non posso che stimare chi sceglie un nome inusuale e con una virgola in mezzo.

E c’è una prima volta in cui quel gruppo di persone che ha formato una band viene designata come next big thing. Immagino questa cosa possa succedere, non so, in un hipster bar londinese in una mattina placida primaverile? In qualche ufficio a Shoreditch? In una chat su Telegram?

Non lo sapremo mai. C’è di certo che, bravura a parte di cui disquisirò a breve, un giorno qualcuna/o ha deciso il destino di questi sette ragazzi che a Londra hanno formato un ensemble chiamato Black Country, New Road. Con una virgola, un nome lungo e poco pubblicizzabile forse.
E che suonano, udite udite, canzoni lunghe e che ben poco si adattano alla velocità dei tempi contemporanei. E se dico lunghe, sono davvero lunghe per i nostri standard. Anzi per gli standard di sette ragazzi ventenni: la traccia più breve dura 4 minuti e 44 secondi (Track X, il suo nome). Perché sia stato deciso tutto ciò, rimane un mistero o forse una cosa a cui non arrivo, per mancanza forse di studi adeguati in marketing. E detta così sembra brutta, sembra che voglia stroncare questo disco (“For The First Time” il titolo dell’album, comunque): e invece no, per qualche strano motivo il fatto che i Black Country, New Road siano il nome del momento in questo strambo febbraio 2021 mi sembra una cosa dannatamente giusta.

Mi sono imbattuto nei BCNR quando, dopo l’ennesimo ascolto del disco-fulmicotone degli Shame uscito a gennaio, la riproduzione casuale di una delle due famose piattaforme streaming (non facciamo pubblicità su Triste©) ha mandato in circolo sulle casse della mia Ypsilon classe 2016 (ancora non esistevano i Black Country, New Road) uno dei loro “singoli”, cioè Sunglasses. Non ho capito per bene cosa fosse quella roba lì, seppure quel giro di arpeggio iniziale di chitarra mi ricordasse una band di Louisville, Kentucky che tornò in hype – sempre per motivi che non comprendo appieno anche se credo c’entri la tremenda parola post-rock – nel 2005.
E se non la conoscete, andate su Wikipedia and wash away your tears. Ma la voce mi ricordava David Yow dei Jesus Lizard e insomma, queste “persone” si capiva sapessero per bene cosa stessero facendo, vista la perizia con cui suonavano i propri strumenti.
E anche lui, questo simil David Yow, cantava cose “profonde”. E tra le tante cose che ho capito nella mia vita è che la musica quando vuole ti sceglie lei, non sei tu a cercarla, come mi ha detto un caro amico qualche giorno fa.

In quel momento i Black Country, New Road hanno scelto me. E mi è sembrato tutto molto giusto, molto bello e quei 9 minuti passati con Sunglasses in macchina tra Raccordo e Tuscolana sono stati…intensi.
Più passa il tempo e più mi sembra futile descrivere cosa suona la gente nei dischi e perché, lascio il compito a chi ha più padronanza dei termini appropriati, parole che altri scelgono e che diventano consuetudine e classicismo, ma giusto un rapido accenno: i Black Country, New Road fanno quello che in altri tempi sarebbe stato definito “prog-rock” per la struttura delle canzoni, le varie fasi che intercorrono all’interno di esse, ma rivisto e corretto con i suoni più propri del (aiuto) post-rock, del noise anni ’90 e con un andazzo free di impostazione jazz che lascia intendere che queste ragazze e questi ragazzi hanno studiato (e non è male, basta che non te lo impongano i genitori*) e sanno quello che fanno, decisamente.
Athens, France e Sunglasses, appunto, sono la cartina da tornasole.

Il rimorso è che la voglia di vederli su un palco è enorme, non solo per quello che si sente nel disco ma anche quello che si vede su Youtube o nelle jam che ci offrono su Bandcamp (le piattaforme “buone” sponsorizziamole, dai!). Vista la giovanissima età avremo anni e anni per vedere dove arriveranno: ma per ora che splendida sorpresa e che bella scelta quella fatta in quell’hipster bar o in quella chat Telegram. Ne parleremo su Clubhouse, ma se il prezzo è questo, i miei soldi e il mio tempo li dedico volentieri, sia ai social che all’hype
Un disco scintillante.

*perché se i tuoi genitori sono tipo Frank degli Underworld, cioè il papà della bassista Tyler dei BCNR, i soldi per le lezioni di basso sono più che ben riposti. Al punto che anche la Ninja Tune, non propriamente una label avvezza a queste sonorità può farti uscire un disco: in questi tempi interconnessi tutto si interseziona, anche l’elettronica più spinta con un disco eccellente di post-rock (argh)-noise-free.

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