Francesco Amoroso per TRISTE©
Realizzare un album come Double Negative, per una band dalla carriera ultraventennale, è stata una vera e propria sfida, a se stessi e agli appassionati. Ma anche al concetto stesso di musica.
Prendere le proprie sonorità, così peculiari, e contaminarle con i suoni di una contemporaneità dolorosa e respingente è stato un atto di coraggio da parte di Alan Sparhawk e Mimi Parker che, nonostante la grande stima di cui hanno sempre goduto e la loro riconosciuta continua spinta verso il cambiamento, nessuno davvero si aspettava. Eppure i Low non hanno esitato a mettersi per l’ennesima volta in discussione, con la consapevolezza e la personalità di artisti maturi e sempre ispirati.
E, dopo un’iniziale e inevitabile spiazzamento, Double Negative è stato salutato come uno dei lavori più belli prodotti in questo primo ventennio del nuovo millennio e considerato come un punto di riferimento artistico vitale, coraggioso, senza compromessi e senza tempo.
Un’apoteosi, insomma. L’ennesima in una carriera artistica senza macchia.
Tuttavia è proprio dopo un successo del genere che è più difficile proseguire.
Se con Double Negative i Low hanno messo in discussione i cardini stessi della propria fisionomia slowcore, cosa dovranno inventare per il loro tredicesimo album in studio?
Una nuova svolta sonora sarà credibile? Un ritorno alle sonorità del passato accettabile?
Quando lo intervistai, subito dopo l’uscita di Double Negative, Alan stesso, sull’argomento, si era mostrato dubbioso (“Non abbiamo ancora pensato a cosa combineremo con il prossimo album. Abbiamo già un po’ di canzoni pronte che mi piacciono e stiamo cercando il modo di registrarle, ma non so bene ancora che direzione prenderemo. Ci piace ancora molto l’idea di sperimentare e credo che dopo quello che abbiamo fatto con questo album la porta si sia aperta e se avremo l’opportunità di fare nuovi album probabilmente continueremo in questa direzione, provando a trovare nuove sonorità. In ogni caso, penso a qualcosa di molto estremo, oppure a un album interamente acustico. Non abbiamo ancora un piano ma proveremo sempre a rinnovarci, almeno finché ne avremo l’opportunità.“).
Hey What, così, rischiava di essere una trappola.
Ma, adesso che è davanti ai nostri occhi e nelle nostre orecchie, è evidente che il talento e l’ispirazione costante hanno permesso ancora una volta ai Low di superare l’impasse in maniera assolutamente brillante.
Come fa una band a dare seguito a un disco epocale? I Low sembrano dirci che basta farne un altro.
Eh sì, perché Hey What è, in qualche modo, un nuovo coraggiosissimo cambio di paradigma.
È ancora il produttore BJ Burton a manipolare la magmatica materia sonora della band di Duluth, ma stavolta, tra una sferzante patina di rumore sintetico, claustrofobiche persistenze atmosferiche e ritmiche distorte e disturbanti, sono le armonie vocali di Alan e Mimi a essere il fulcro dell’opera: sempre in primissimo piano, benché spesso contaminate, sfigurate e sfregiate dalle dissonanze post industriali che, in maniera mirabile, sottolineano la straziante realtà nella quale si trovano immerse.
Così, grazie alle voci sublimi e spirituali dei coniugi Sparhawk/Parker, come Double Negative era freddo, oscuro e caratterizzato da un’incomunicabilità che a tratti si faceva respingente, Hey What sembra più accogliente e caldo.
Non è certo la quiete dopo la tempesta: l’introduttiva distortissima White Horses chiarisce subito che i Low non hanno trovato un rifugio sicuro dove proteggersi dalle brutture del presente, e nemmeno l’hanno cercato.
Interrogato sulla speranza (e sulla fine della stessa: in Dancing And Fire cantava: “It’s Not The End/ It’s Just The End Of Hope“), Alan mi confessò: “Succede spesso che le persone arrivino a un punto tale che si accorgono di non avere più nulla da sperare e allora l’unica cosa che possono fare è continuare a respirare e qualche volta, magari dopo un po’ di tempo, la speranza torna a fare capolino. Forse quando riesci a distaccarti dalla tua condizione e avere una visione di insieme può accadere.“
In fondo con Hey What è proprio questo che hanno fatto i Low. Hanno continuato a respirare e a fare ciò che meglio gli è sempre riuscito, scrivere musica e cantare, fino a che la speranza non è tornata a fare capolino e una luce flebile e lontana non ha cominciato a baluginare in fondo al tunnel.
Tanto che, quando ci sembra di esserci definitivamente abituati alla nuova veste sonora dei Low con brani come I Can Wait, All Night e Disappearing, ancora portatori di passaggi sonori sinistri, burrascosi e graffianti, arriva la lunga e superlativa litania Hey, posta, non a caso, al centro dell’album, a rappresentare, in qualche modo, la svolta: tra loop e distorsioni, Mimi Parker occupa il centro della scena con la sua voce, gloriosa e celestiale.
La successiva Days Like This, nella quale è Alan a prendersi i riflettori, seppure ancora caratterizzata da improvvise e violente distorsioni, è quanto di più vicino alla luce i Low abbiano prodotto da molti anni a questa parte e lo stesso vale per la tenera e struggente Don’t Walk Away (“I have slept beside you now / For what seems a thousand years / The shadow in your night / The whisper in your ear / So don’t walk away/I cannot take anymore“), per la melodia carica di fuzz More e per la lunga chiusura di The Price You Pay, un’elegia elevata ed edificante, con la quale i Low si riappropriano del loro songwriting intenso e accorato, che prevale sul rumore assordante e sinistro del presente.
Hey What è ancora dissonante e ostico, a tratti sconnesso e caotico, ma – seppur lontano dal cinismo nichilista di tanti commentatori contemporanei – è un album che, come pochi, dipinge questi tempi tormentati, turbolenti e incomprensibili, riuscendo anche a essere pieno di speranza e di dolorosa bellezza.
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