Francesco Amoroso per TRISTE©
Ho davanti a me una pagina bianca, aperta per scrivere le mie impressioni sul nuovo album della divina (non riesco a fare a meno di usare questo aggettivo ogni volta che la nomino, ultimamente) Natalie Mering, in arte Weyes Blood.
E ho la forte tentazione di lasciarla così come è.
Anche se ascolto l’album da parecchio tempo, per parlarne volevo aspettare che uscisse ufficialmente, in modo tutti avessero l’occasione di ascoltarlo. Così mi sono trattenuto, un po’ fremente, nonostante sapessi di avere tra le mani un album superbo, un lavoro che non solo è tra i migliori dell’anno in corso, ma che è destinato a rimanere nel tempo.
Eppure, ora che è venuto il momento di raccontarlo, di dare il mio (per quanto non richiesto) punto di vista, ho la forte tentazione di non dire nulla. Di lasciar parlare la musica.
La tentazione -che, ammetto, è spesso molto forte- deriva dalla constatazione che, di fronte a tanta bellezza, le mie parole sono davvero inutili. Inutili e inadeguate.
Forse, se fossi un poeta, uno bravo, o uno scrittore dotato di grande sensibilità e della capacità di descrivere la bellezza, allora raccontare And In The Darkness, Hearts Aglow potrebbe avere un senso, potrei aggiungere la fiammella di una candela per dare un piccolo contributo alla luce abbacinante che questo album regala.
Ma non mi reputo all’altezza. Il mio discorrere è ordinario e per parlare di Weyes Blood e del suo nuovo album, ci vorrebbe la capacità di scomodare lo straordinario, il sublime. Compiti troppo sopra le mie capacità.
E allora?
E, allora, per smentirmi, come sempre faccio, proverò a dire comunque qualcosa su And In The Darkness, Hearts Aglow, facendo però finta, per il tempo di questo breve (?) scritto, di trovarmi di fronte a un album normale.
Mi permetto di dare per scontato che, a questo punto, chiunque stia leggendo sappia chi sia Weyes Blood e custodisca nel proprio cuore i suoi lavori precedenti, almeno dall’ottimo The Innocents, passando per il magnifico Front Row Seat To Earth, per arrivare a Titanic Rising, l’album che, tre anni fa, ha mostrato a tanti il grande talento di Natalie Mering, consolidandone definitivamente la fama.
Non dico nulla di nuovo, quindi, se affermo che la musica di Weyes Blood è caratterizzata da orchestrazioni barocche e strutture tipiche del folk-pop della west coast degli anni ’70 e se affermo che la sua voce elegiaca, che si libra potente e atterra soave, è ormai un marchio di fabbrica inconfondibile.
I suoi album sono costruiti mirabilmente sull’equilibrio tra pop e sperimentazione e And In The Darkness, Hearts Aglow non fa eccezione ma, se nei lavori precedenti questa volontà risultava in qualche modo palese, come un traguardo da raggiungere per tentativi, nel nuovo album tutto sembra talmente spontaneo e naturale che discutere dei dettagli tecnici che hanno portato a questo risultato sembra davvero ozioso.
La musica di Weyes Blood riesce a essere assolutamente contemporanea ma ha, allo stesso tempo, un sapore classico, fuori dal tempo. I suoi riferimenti al pop anni sessanta e settanta, l’influenza che hanno sulla sua musica -e su questo album in particolare- sono naturali, quasi involontari. Sembra che Natalie, semplicemente, non possa farne a meno.
Non ha mai nascosto la sua grande ammirazione per le canzoni della Tin Pan Alley, così come per la musica classica, per gli anni ’40 e per il doo wop degli anni ’50. E, così come accadeva per molti dei cantautori degli anni ’70, che lavoravano sulle stesse influenze, queste sue passioni traspaiono, sempre più evidenti nelle sue composizioni.
Non sono un caso, quindi, le assonanze con il cantautorato anni Settanta e con una musica che, per quanto radicale e di ricerca, non dimenticava mai la melodia e la narrativa.
In questo senso, And In The Darkness, Heart Aglow è, rispetto a Titanic Rising che aveva scelte sonore piuttosto eterogenee, più omogeneo, più coerente, più intimo. Se si escludono i due bevi (uno brevissimo…) intermezzi strumentali e Twin Flame, caratterizzata da un arrangiamento decisamente contemporaneo, infatti, Mering ha creato, con la sua musica, una specie di fiume sotterraneo che lega i suoi pensieri più intimi e privati in un flusso continuo che travolge il pubblico e il privato.
Per essere sincera e vulnerabile al massimo grado, Natalie ha avuto bisogno di una corrispondenza nel suono, che, senza sovraincisioni, senza rumori che distraggono, con un lavoro di studio ridotto all’osso, riesce a propagarsi internamente e, lentamente, onda sonora dopo onda sonora, finisce per travolgerci.
Riannodano il filo di una conversazione intima e sincera che parte da lontano, Mering ritorna alle tematiche che le sono più care: il rapporto malato con la tecnologia, la vita che, ogni giorno di più, diventa solo un palcoscenico sul quale esibirsi, le relazioni tossiche, lo stato del pianeta. Argomenti prosaici che, mai come questa volta, sono toccati in maniera esplicita e diretta, senza che, tuttavia, un briciolo della poesia che caratterizza le sue composizioni vada perduto.
Di davvero diverso nelle parole di And In The Darkness, Hearts Aglow c’è, sin dal titolo, una piccola speranza, un po’ più fiducia nel futuro. Sostiene Mering che più si scende negli abissi, più la speranza riprende vigore (lo affermava anche, qualche tempo fa, Alan Sparhawk dei Low). E che negli abissi, negli ultimi tempi, ci siamo scesi parecchio.
Con le sue canzoni Natalie ci dice che è di nuovo permesso avere un’anima, amare, lasciarsi andare ai sentimenti e che, anzi, è proprio questa la sola speranza che ci è rimasta. Che, nonostante tutto, le nostre anime e i nostri cuori in qualche modo brillano ancora.
E se siamo tutti coscienti che le persone soffrono, si arrendono, muoiono e che distruggere il pianeta da cui veniamo e con cui siamo tutt’uno è un’idea molto stupida, allora non potremo fare a meno di comprendere come l’unico bene che ci rimane è il più semplice degli aspetti spirituali: l’essere interconnessi gli uni con gli altri e il considerare la nostra intimità.
Questo è quello che tenta di trasmettere la dolce ballata (cantata in maniera sublime, naturalmente) che apre l’album: It’s Not Just Me, It’s Everybody è una sorta di richiamo, un allarme gentile che ricorda alle persone che siamo tutti sulla stessa barca, siamo tutti sullo stesso pianeta (“Living in the wake of overwhelming changes/ We’ve all become strangers
Even to ourselves/ We just can’t help/ We can’t see from far away/ To know that every wave might not be the same/ But it’s all a part of one big thing“), che abbiamo bisogno gli uni degli altri e abbiamo necessità di riconnetterci (Sitting at this party/ Wondering if anyone knows me/ Really sees who I am/ Oh, it’s been so long since I felt really known).
Dovremo, se vogliamo che la nostra civiltà e la nostra specie sopravviva, capire che la compassione è l’unica difesa che ci rimane contro un individualismo esasperato che porta alla solitudine e al dolore (“Mercy is the only/ Cure for being so lonely/ Has a time ever been more revealing/ That the people are hurting“).
Un concetto semplice, quasi apodittico, che Weyes Blood ribadisce anche nella successiva Children Of The Empire, un piccolo capolavoro di composizione che musicalmente alza i toni -con i suoi arrangiamenti orchestrali, sembra uscita da un musical degli anni cinquanta (sempre che un’affermazione del genere possa essere considerata in maniera positiva)- e che vede le speranze per il futuro riposte nelle nuove generazioni (nelle quali, è importante sottolinearlo, l’autrice non ritiene di poter essere annoverata, circostanza, questa, che rende ancora più efficace il messaggio).
Sarebbe errato, tuttavia, pensare che l’album sia una sorta di trattato sociale/filosofico: alcune canzoni sono tra le più intime e personali che Mering abbia mai scritto.
Grapevine, che parla di una relazione fallita caratterizzata da alcuni viaggi su e giù per l’autostrada in California -soprannominata Grapevine Freeway-, ne è un esempio lampante. Natalie apre il proprio cuore, ricorda con rimpianto un amore – rivelatosi poi tossico (“If а man can’t see his shadow/ Oh, he can block your sun all day”)- e riflette su quanto possa essere tragico che un sentimento che sembrava così significativo e appagante (“Ooh, you know I would/ Go back to the camp with the kerosene lamps in the woods/ Ooh, when you were mine/ And I was yours for а time“) possa diventare prima doloroso e, poi, addirittura trascurabile (“Now we’re just two cars/ Passing by on the grapevine“).
Un brano dalla disarmante schiettezza che, lungi dal voler essere una dichiarazione di coraggio femminile e indipendenza, si rivela semplicemente come la narrazione, sentita e poetica, di una storia d’amore a cui tutti possono relazionarsi.
Il successivo God Turn Me Into A Flower è uno dei brani di cui, sinceramente, ho più difficoltà a parlare: era forse dai tempi di I Know It’s Over degli Smiths che una canzone non colpiva così vicino al cuore.
Partendo da uno dei miti nati intorno alla figura di Narciso -che, alla fine, viene trasformato in un fiore- Weyes Blood compone un delicatissimo e commovente inno, un’invocazione alla dolcezza e alla gentilezza: “It’s good to be soft when they push you down/ Oh, God, turn me into a flower“.
In questo semplice verso, all’apparenza fragile, quasi disperato, si nasconde una forza rivoluzionaria. Così come Morrissey (per poi smentire se stesso in pensieri, parole, opere e omissioni) rassicurava milioni di adolescenti timorosi che era facile ridere, facile odiare, mentre ci voleva coraggio a essere buoni e gentili, Natalie Mering ci dice che, invece di essere sempre focalizzati verso il successo, invece di mostrarci forti e determinati, dovremmo rimanere fragili, dolci e gentili. Dovremmo invocare che Dio ci trasformi in un fiore, perché l’accettazione di noi stessi e delle nostre debolezze è l’unica arma che abbiamo per non andare in mille pezzi (“It always takes me, such a curse to be so hard/
You shatter easily and can’t pick up all those shards“).
Il tema della perdita delle connessioni e dei rapporti umani (“I’ve been without friends, oh I’ve just been working/ For years and I stopped having fun“), ritorna anche in Hearts Aglow, uno dei brani più dolorosi e oscuri dell’album, il cui lirismo è stemperato, solo in parte da un sontuoso arrangiamento orchestrale.
Potrebbe stupire e spiazzare, così, che, quasi in chiusura di un album acceso dal calore della speranza, arrivi un brano come The Worst Is Done, una canzone che, nonostante la sua apparente leggerezza folk-pop, può suonare fortemente pessimista (“But they say the worst is done/ And it’s time to go out and see everyone/ They say the worst is done/ But I think it’s only just begun/ I hear it from everyone/ We’re all so cracked after that“).
Eppure, ancora una volta Natalie Mering dimostra la propria coerenza, semplicemente richiamandoci alla realtà: il lockdown è stata un’esperienza davvero devastante e così la recessione economica che ne è derivata e, per riprendere a vivere, è necessario prendere consapevolezza della realtà, rendersi conto che catastrofi globali di questo tipo potranno continuare a verificarsi e, proprio con – o nonostante- questa consapevolezza, continuare a coltivare la speranza, l’amore e la bellezza.
Ed è nel segno della bellezza più sublime e dell’amore che And In The Darkness, Heart Aglow si conclude, meraviglioso, divino, trascendentale e senza tempo, con A Given Thing, una magnifica ballata per piano, nella quale l’amore si eleva fino a toccare vette di misticismo inusitate: “Oh, it flows out of you/ It flows out of me, too/ And I can’t tell where you end/ Oh, and where I began/ Oh, it’s a given thing/ Love, everlasting“.
Così, ogni volta che sfumano le ultime note di A Given Thing, mi trovo con gli occhi umidi e, ogni volta, mi rendo conto di non avere le parole per descrivere questo album e la sensazione che tanta bellezza mi provoca.
Per sicurezza, però, la prossima volta che comincio a dire che non trovo le parole, forse vi conviene scappare…
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