Francesco Amoroso per TRISTE©
Mi auguro che questa non venga presa come una lamentela, ma è indubbio che viviamo costantemente sommersi da una ipertrofica produzione musicale (“sommersi soprattutto da immondizie musicali” direbbe qualcuno, non proprio a torto, soprattutto se si guarda esclusivamente la superficie). Potremmo passare il resto delle nostre vite ad ascoltare ogni giorno un album nuovo, eppure non riusciremmo comunque a tenerci al passo.
Forse è questo il motivo per cui tanti appassionati di musica pigri e poco avventurosi si rifugiano nel passato: lasciano che siano altri a fare selezione per loro e, piuttosto che azzardare, preferiscono affidarsi al giudizio (spesso fallace) del tempo.
Non sanno quanto si perdono.
Ascoltare tutto è senza dubbio impossibile e, allora, volendo comunque provare a scovare la bellezza nascosta di tante produzioni “minori”, è necessario fare una cernita preventiva, cercare indizi, dare credito a piccole etichette, scandagliare “scene” artistiche sotterranee e i legami, spesso labili, che avvicinano tra di loro i musicisti.
E’ così che, qualche anno fa (era il 2019) ho ascoltato il primo vagito di Nico Hedley, songwriter e musicista di Brooklyn, con un singolo, Late Bloomer rilasciato sull’etichetta Whatever’s Clever, la stessa degli Adeline Hotel e, soprattutto, del grande Ben Seretan.
Dopo un altro paio di singoli (uno dei quali condiviso proprio con l’amico Setetan, per il quale Hedley suona spesso il basso) è arrivato finalmente l’esordio sulla lunga distanza, Painterly (sempre su Whaterver’s Clever).
Presentato come un album che fonde il country con il folk e l’emo (!), in realtà i sette articolati brani che compongono Painterly sono molto di più.
Hedley parte evidentemente proprio dal country (del resto il brano di apertura si chiama Tennessee ed è pieno di steel guitar) e il suo suono è in chiara continuità con coloro che lo hanno preceduto (a volte viene in mente addirittura Neil Young) ma, prendendo l’abbrivio dalla “classicità”, continua deciso il proprio percorso verso territori inesplorati con atmosfere rilassate e intime e una grazia negli arrangiamenti che ha pochi precedenti.
Grazie anche a un gruppo affiatato di musicisti, tutti i brani sono resi più emozionati, vivi e avventurosi, con eccitanti ed elegantissime coloriture jazz, con l’uso misurato ma efficacissimo di un controcanto femminile, con improvvise esplosioni chitarristiche e crescendo sonori che donano dinamismo alle composizioni di Hedley. Le canzoni si sviluppano in maniera non lineare, con gli strumenti che prendono la scena improvvisamente per poi nascondersi dietro l’ensamble. Sembra, a tratti, di ascoltare gli Spain di Josh Haden, ma i percorsi compiuti per arrivare a risultati simili, paiono praticamente opposti.
Se, ascoltando Painterly, è facile trovarsi a pensare alle malinconiche notti di una tarda estate, a luci livide che illuminano highways deserte, ai grilli che friniscono nell’oscurità sconfinata dei campi del Midwest, basta un attimo per ritrovarsi tra le mille luci di New York o in un fumoso locale downtown.
E Nico Hedley è un musicista coraggioso ma anche un paroliere che non si nasconde: la perdita, l’egoismo, le ansie, le ferite, la crudeltà sono compagni di strada delle sue canzoni ma, lungi dal commiserarsi, l’artista di Brooklyn cerca di allargare lo spettro delle proprie riflessioni, aprendosi verso l’esterno, superando il confine dell’introspezione.
La magnifica apertura di Tennessee, desolata e piena di speranza (“I just want someone to say ‘Goodbye’ to“), Waking Dreams che suona come un brano indie rock che, grazie al sax e alla pedal steel, ha deciso di inoltrarsi in territori sconosciuti, Sounds So Familiar con il suo sorprendete assolo di chitarra, la malinconica e poetica title track che cita Emily Dickinson, si perde in un sassofono jazz e si disarticola nelle ultime battute quasi noise, Waking Dreams, che racconta la depressione con i suoni ancor più che con le parole, It Gets Easy e I Just Wanna Dance, nelle quali gli stilemi country sono ripresi con delicata devozione, per poi essere reinterpretati e messi in discussione (“If your heart will allow/ I’ll just find a way to break it somehow”), la lunghissima The Tower, che racchiude mirabilmente in sé sonorità antitetiche o il lento valzer conclusivo Lioness nel quale la voce di Hedley fluttua sopra una semplice melodia di chitarra, quasi pacificata (“There’s a light and it’s shining not only for you/ We can all feel the glow pouring out of the blue if we wanted to“), compongono un quadro sonoro (non è un caso la scelta del titolo Painterly, letteralmente “pittorico”) vivido e pulsante, un lavoro che riesce ad essere avvincente e non convenzionale, senza risultare mai men che spontaneo e genuino.
Le composizioni di Hedley, ci viene detto, nascono da una profonda riflessione e Painterly è un album fatto da brevi illuminazioni, dalla consapevolezza che, più che uno scopo, è il processo di costante avanzamento e miglioramento a contare davvero.
Ben radicato, eppure sempre sottilmente fuori dagli schemi, Painterly, insomma, è proprio il tipo di album che ci si augura di scoprire mentre si rischia di rimanere sempre più sommersi dalle “proverbiali” immondizie musicali.
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