Francesco Giordani per TRISTE©
Scrivo queste righe con ancora stampata negli occhi l’impronta vivida delle immagini vertiginose, dei colori saettanti, delle opulente scenografie, ai limiti di un labirinto per le pupille, di The French Dispatch.
Decima pellicola del genio texano Wes Anderson che è giunta nelle sale cinematografiche del Belpaese (dove va rigorosamente ammirata) in queste settimane e che perciò mi guardo bene dal raccontarvi, considerato anche l’intricatissimo groviglio di trame e intrecci che l’avviluppa nel suo scintillante, umanamente davvero non riassumibile, arabesco.
Dovessi però ascrivere il film ad un genere, oscillerei fra l’elogio e l’epitaffio, per poi propendere, più suggestivamente (e barando un poco), per il cenotafio. Leggo nella Treccani: “Cenotàfio s. m. [dal lat. tardo cenotaphium, gr. κενοτάϕιον, comp. di κενός «vuoto» e ταϕός «tomba»].Tomba vuota e, più comunem., monumento sepolcrale, innalzato in onore di qualche illustre defunto, senza che il suo cadavere vi sia effettivamente sepolto”. Con una non trascurabile avvertenza: nessun defunto in particolare viene qui celebrato.
Si potrebbe semmai parlare, più correttamente, di un individuo universale ovvero di un Mito. Meglio ancora: di un Mestiere mitico, e, per essere precisi sino in fondo, del Mestiere mitico di Giornalista.
Professione oggi quanto mai secolarizzata, bistrattata e sovente anche miseramente pagata, concorderete, alla quale tuttavia l’affettuoso, quasi trepidante, lettore di giornali Anderson innalza un supremo e tanto più indimenticabile Monumento sinfonico in immagini, parole e suoni (a cominciare da quello delle rotative, of course) che impagina sullo schermo, per un’ultima trionfale “edizione straordinaria”, tutti i più sottili prodigi, tutte le più incontrollabili magie, dell’affabulazione giornalistica. Perché sì, è del tutto evidente, solo Anderson poteva cantare così bene al nostro orecchio un’arte dal sapore ormai irrimediabilmente idealizzato, novecentesco, e ciononostante capace come nessun’altra di materializzare mondi (non importa quanto veri, non importa quanto verificabili) solo grazie al potere del racconto scritto e all’abilità di chi sa dominarlo.
Potrei anch’io allora diffondermi sulle non piccole fortune che ho dilapidato in quella scuola di vita che sono state per me le edicole sin dalla primissima infanzia, sull’importanza direi quasi pedagogica di giornali, albetti e riviste, sul desiderio di diventare giornalista che ognuno di noi ha conosciuto almeno una volta nella sua giovinezza.
Vi parlerò invece di Jarvis Cocker, che al film di Anderson dona il motivo principale (ovvero una cover-capolavoro di Aline di Christophe, 1965) e che nello stesso film appare ma solo “in effigie”, per così dire, e vestendo i panni di Tip-Top, romantico chansonnier pre-sessantottino, così descritto in un esilarante dialogo fra giovani contestatori, che mi piace riportare per intero, in originale:
“What are you doing?”
“Replacing Tip-top with François-Marie Charvet.”
“They can live together. Tip-top with Charvet”.
“Tip-top is a commodity represented by a record company owned by a conglomerate controlled by a bank subsidized by a bureaucracy sustaining the puppet-leadership of a satellite stooge-government. For every note he sings, a peasant must die in West Africa”.
Il resto del disco, sorta di greatest hits immaginario del cantante creato da Anderson e Cocker, omaggia, fra il divertito e il commosso, la grande canzone francese, con riletture ispirate oltre che godibilissime di Françoise Hardy, Serge Gainsbourg, Brigitte Bardot, Dalida o Nino Ferrer.
Spicca tra esse un’amabile Paroles Paroles in duetto con Laetitia Sadier, ma destano sincera curiosità anche episodi più pittoreschi come Contact o Mao Mao, che confermano nel complesso uno stato di grazia dell’Inglese già ben documentato dal bel Beyond The Pale dello scorso anno.
Sebbene sia poi, prevedibilmente, Aline a svettare nel bouquet, impetuosamente irrorata dalla linfa di quei suoi versi abbacinanti: Et j’ai crié, crié “Aline!” pour qu’elle revienne/ Et j’ai pleuré, pleuré/ Oh j’avais trop peine, che paiono quasi un ultimo disperato saluto ad una Civiltà, quella giornalistica, che, seppur finita, non se ne andrà mai, essendo diventata, anche grazie a Wes Anderson, Mito.
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