Francesco Amoroso per TRISTE©
Non so se capita anche ad altri, ma personalmente, da qualche tempo a questa parte, tendo ad adagiarmi, nei mei ascolti, su sonorità che riescono ad accompagnare le mie attività quotidiane senza essere troppo invasive o disturbanti. Privilegio, così, artisti e musicisti che, pur esprimendo – almeno dal mio punto di vista – tutto il loro talento e la loro personalità, lo fanno con una certa pacatezza o con sonorità a cui sono maggiormente abituato.
Questo atteggiamento, tuttavia, rischia di farmi perdere una grande fetta di produzione musicale, che sarebbe almeno altrettanto degna di attenzione, per il solo fatto che le caratteristiche espressive scelte da alcuni artisti mal si conciliano con un ascolto disattento o non sono adatte a qualsiasi momento della giornata o umore.
La produzione musicale di Haley Fohr, in arte Circuit Des Jeux, è un esempio evidente di quanto sto provando a spiegare: le sue composizioni, articolate, impegnative, spesso stranianti e dissonanti, non sono adatte ad essere fruite distrattamente, né, tantomeno, in qualsiasi mood ci si trovi.
E questo vale anche per il suo ultimo album, -io, per quanto, in alcuni passaggi, sia il più accessibile della sua produzione.
Ho così rischiato di farmi sfuggire (per distrazione, per pigrizia mentale, perché non sempre avevo voglia di essere sfidato all’ascolto) una delle opere più valide e rilevanti dell’anno che sta andandosi a concludere.
Devo il suo recupero soprattutto alla newsletter Dada Drummer, pseudonimo dietro il quale si nasconde (in piena luce, in realtà) Damon Krukowski, batterista e metà del duo Damon & Naomi, che si occupa di solito di politica musicale ma che, di tanto in tanto, racconta anche degli ascolti (di musica recente o del passato) che più hanno appassionato il suo autore.
Nell’ultima newsletter Damon si dichiara innamorato di -io e stupito del fatto che un lavoro di questa portata non abbia avuto una maggiore eco, soprattutto nelle inevitabili classifiche di fine anno.
Secondo lui Haley Fohr ha pubblicato un lavoro che può già essere considerato un classico che, però, paga il fatto di non essere né un sorprendente debutto (è il suo settimo album), né un album categorizzabile tra quelli coni i quali un artista ha trovato la propria voce (Haley ha una sua propria voce sin dagli esordi) o un album scritto per raggiungere un pubblico più vasto (lo si diceva all’inizio: questo è un lavoro tutt’altro che facile o ammiccante), né, ancora, un album che possa creare grandi controversie (chi amava Circuit Dex Yeux continuerà a farlo, chi non la sopportava non troverà, qui, motivi per cambiare idea) o un album pieno di collaborazioni importanti (anche stavolta Haley lavora in relativa solitudine). L’elenco prosegue, ma il senso è uno solo: il (sesto o) settimo album nella carriera musicale di un artista è, di solito, poco eccitante per la critica (a meno che non faccia parte di una delle categorie di cui sopra). Già il solo fatto di parlare di carriera musicale, del resto, spiega il perché di tale atteggiamento: sono termini questi, dice Krukowski, che adattano il vocabolario delle risorse umane all’arte.
Ed è un errore clamoroso. Perché un’artista come Haley Fohr non se ne sta mai adagiata sugli allori, anzi mette in gioco se stessa e pone i suoi ascoltatori di fronte a degli ostacoli ogni volta che fa uscire nuovo materiale.
E’ con questo stringente ragionamento che Damon mi ha convinto a riprendere in mano -io ed è grazie alle sue parole, che mi hanno accompagnato nell’ascolto, che sono riuscito a dedicare a questa opera significativa e stimolante il giusto tempo e la giusta attenzione.
-io parte con apparente leggerezza: poco più di trenta secondi per Tonglen/In Vain per introdurre, però, un brano subito “difficile”. Vanishing, costruita su una complessa partitura di archi che ne sostengono il ritmo, è una canzone dall’andamento drammatico, supportata dalla voce operistica di Haley, piena di sorprese e mai uguale a se stessa (se non fosse per gli archi che si ripetono ossessivi).Un’affermazione coraggiosa che stabilisce il tono di tutto l’album. Un album che potrebbe quasi sembrare un lavoro di rock barocco, ma che si distacca da quegli stilemi (spesso obsoleti e decisamente poco attraenti) grazie alle sontuose interpretazioni di Fohr e alla sua volontà di rompere ogni schema precostituito.
La successiva Dogma è cristallina in questo senso: strutturata in maniera più canonica, cantata in modo meno enfatico, suona esattamente come un brano di rock contemporaneo e eccitante dovrebbe fare – chitarre elettriche, un sottofondo elettronico persistente, ritmi incalzanti, ma non scontati ad accompagnare una voce cavernosa e coinvolgente. Eppure il brano si interrompe proprio quando ci si aspetterebbe un crescendo, un finale pirotecnico. E anche in questa scelta controcorrente sta il suo fascino.
La successiva The Chase svaria improvvisamente, stemperando in un primo momento la tensione, con una chitarra acustica e una voce inquietante e sussurrata, per riallacciarsi, altrettanto repentinamente, alle atmosfere iniziali, grazie agli inserti elettronici e alla voce, ancora una volta operistica, di Haley.
Se non bastassero questi saliscendi emotivi, arriva Sculpting the Exodus, con la voce di Haley piena di pathos, accompagnata da un coro quasi classico e da un orchestrazione che sottolinea brillantemente un passaggio musicale ripetuto, fino a che il brano non si trasforma in pura, travolgente, assoluta emozione, nella quale, piuttosto che restare vigili, è più opportuno perdersi.
E’ tanto il trasporto quasi parossistico provocato dal brano che il seguente Walking Toward Winter, nonostante la sua oscurità, sembra una boccata d’aria fresca, con i violini aerei che sorreggono un’altra interpretazione vocale da brividi.
E’ forse il momento più rilassante dell’album, quello più toccante e delicato, un istante nel quale Circuit Des Yeux mostra la propria umana fragilità senza alcuna dissimulazione.
Argument, altrettanto magnificamente orchestrata, non si allontana da queste atmosfere ma nella seconda parte, un superbo inserto di tromba riporta a galla l’inquietudine e anche l’orchestra torna a essere più incalzante, per poi stemperarsi, d’improvviso, in una coda per chitarra acustica e voce di inenarrabile delicatezza che introduce Neutron Star, nuovamente una montagna russa emotiva, tra passaggi acustici, picchi orchestrali e vocalizzi elettrizzanti.
La ballata Stranger viene, invece, descritta così da Damon Krukowski: “Mi sembra il modo in cui immagino che Adele debba suonare agli altri: intimo ma pubblico, meditativo ma dichiarativo, graziosamente melodico ma emotivamente inquietante“. Personalmente non so come Adele suoni “agli altri”, ma è certo che, con Stranger, Circuit Des Yeux fornisca un esempio di come una ballata emozionante, audace e avventurosa dovrebbe essere, toccando corde che forse solo le interpretazioni del progetto This Mortal Coil o i brani più riusciti di Antony & The Johnsons avevano toccato prima.
L’album si conclude con un brano che ne modifica di nuovo l’atmosfera: Oracle Song è un brano melodico (per quanto melodica possa essere una composizione di Circuit Des Yeux), cantato in maniera più canonica rispetto ai precedenti (ma altrettanto sublime) che tratta di adolescenza ma, in perfetta coerenza con il resto dell’album, senza alcuna nostalgia, anzi con una certa desolata risolutezza. “You’ll keep your body and restore your soul six times in your life, each time will be more bold” canta Haley.
Devo ringraziare Damon Krukowski che mi ha preso per mano e mi ha accompagnato, paziente, nei meandri di questo album. Devo ringraziarlo perché senza i suoi sapienti consigli, senza le sue puntuali, ma non saccenti, osservazioni non avrei mai avuto l’opportunità di cogliere tanta bellezza, di apprezzarne le infinite sfumature e i particolari, di rimanere affascinato dalle sonorità così ardite, a tratti aspre, eppure così sublimi di Circuit Des Yeux.
Se non riuscite a entrarci subito, fatevi aiutare anche voi, perché -io non dovrebbe assolutamente rimanere un segreto ben nascosto: dovrebbe essere ascoltato, anche se è il settimo album della “carriera” di Circuit Des Yeux, con la dovuta attenzione e la giusta predisposizione d’animo, perché Haley Fohr lo merita, per la sua audacia, per il suo coraggio e per il suo incommensurabile talento.
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