Francesco Amoroso per TRISTE©
Mi rendo conto solo adesso di aver forse sprecato un’invettiva nel contesto sbagliato. Ho introdotto il lavoro d’esordio di una band molto promettente e che potrebbe ben presto diventare piuttosto chiacchierata, prendendomela con quel modo di divulgare la musica che si basa sul compilare classifiche di tutti i generi e tirare fuori continuamente i dischi da isola deserta, i dischi della vita, gli album che hanno fatto la storia, i lavori più importanti del secolo e chi più ne ha più ne metta. Tuttavia è possibile che il disco i questione, o quanto meno la band che l’ha inciso, possano prima o poi finire in una di quelle classifiche, magari non subito, magari con il tempo o con un album un po’ più ammiccante.
Esistono invece album sui quali sarei pronto a scommettere che rimarranno -ingiustamente- privilegio per pochi, che verranno ascoltati da uno sparuto gruppo di appassionati e il cui ascolto rimarrà un dolce ricordo privato, un’emozione da non condividere, anzi da conservare gelosamente. Album che non hanno alcuna intenzione di strabiliare o di sconvolgere, ma sono scritti con immenso amore per la musica e grande onestà, solo per il gusto di concedersi con generosità a chi è pronto ad accogliere note e melodie.
E’, senza dubbio alcuno, il caso di Sun Casts A Shadow, il breve (23 minuti per nove canzoni) album collaborativo della cantautrice neozelandese Emily Fairlight e del conterraneo Mike McLeod (aka The Shifting Sands).
Entrambi gli autori avevano già dato ampia prova del loro talento, la prima con il favoloso Mother Of Gloom che, nel 2018, aveva fatto conoscere a molti le sue peculiari doti canore e la sua capacità di scrivere canzoni folk malinconiche e decisamente oscure, il secondo con Cosmic Radio Station, del 2015, nel quale rivisitava il classico Dunedin sound (accompagnato in un paio di brani anche da David Kilgour di The Clean) con freschezza e grandi capacità melodiche.
Oltre alle comuni etichette discografiche (la Fishrider per la Nuova Zelanda e la Occultation per l’Europa) tra i due musicisti non avrei saputo trovare grandi punti di contatto, eppure, dopo un condiviso tour internazionale The Shifting Sands ed Emily Fairlight si sono ritrovati in uno studio di Los Angeles per incidere un paio di brani, “per divertimento“. In meno di 48 ore, invece, è nato Sun Casts a Shadow (registrato da Manny Nieto, già tecnico del suono di The Breeders).
In questo lavoro le due anime, quella più cupamente folk di Fairlight e quella più ottimista e solare di McLeod si fondono in maniera naturale, creando canzoni in bilico tra folk e jangle pop come la delicatissima e malinconica Get Through This cantata da McLeod, o Wit nella quale la voce di Fairlight e le chitarre di McLeod costruiscono un’atmosfera avvolgente e ipnotica.
La chitarra acustica e quella elettrica si combinano alla perfezione nella brillante Head Above, mentre nella successiva Desert Love sono le voci a intrecciarsi dando vita a un brano pieno di nostalgia e rimpianto.
La piccola magia che si compie qui (e negli altri episodi dell’album) è dovuta all’amalgama perfetto tra le due voci e tra i due stili musicali, che fa in modo che mai uno prevalga in maniera netta sull’altro, tanto che non si potrebbe dire chi è l’autore dei singoli brani. Ne è un esempio straordinario il divertente duetto country-folk Borderline: “I don’t want a house and I sure hate my job, I’d rather fuck around and write these shitty songs” cantano all’unisono Farlight e McLeod.
Sembra quasi, a tratti, che ci si trovi al cospetto di adorabili improvvisazioni nate per il puro piacere di suonare insieme, per intrattenere un gruppo di amici al tramonto su una spiaggia, mentre si sorseggia un drink e ci si appresta a fare l’ultimo lungo bagno della giornata.
Così come accadeva qualche anno fa per un’altra magnifica e inaspettata collaborazione, quella tra gli australiani Emma Russack e Lachlan Denton, sono proprio una certa crudezza nella registrazione, la spoglia onestà e la genuina voglia di trasmettere emozioni senza sovrastrutture, senza troppe riflessioni ed elaborazioni sonore a rendere Sun Casts A Shadow un album teneramente incantevole e irrinunciabile: canzoni nude con due voci antitetiche eppure complementari, due chitarre (di solito acustiche) e niente altro che una grande capacità melodica. Basterà ascoltare Summer Sun cantata ancora da McLeod, per rendersene conto.
Sul finale, poi, arrivano il pop psichedelico di Get You, con il controcanto di Fairlight, per The Shifting Sand e la magnifica ballata folk Defences per Emily Fairlight, caratterizzata dal suo inconfondibile stile vocale che perfettamente qui si adatta al controcanto di McLeod, a dare la definitiva dimostrazione del talento melodico e della perizia nel songwriting dei due artisti neozelandesi. Due canzoni molto diverse che funzionano entrambe alla perfezione e che concludono in bellezza questo piccolo album che, senza alcuna pretesa, riesce a essere prezioso e emozionante.
Perché Sun Casts a Shadow è esattamente e solo questo: un album che non nasce per entrare a far parte o sconvolgere la “storia della musica” ma che, nascendo senza particolari ambizioni e senza porsi alcun traguardo, riesce a palesare la grazia e la bellezza che si celano, a volte, dietro la semplicità.
Pare che McLeod e Fairlight abbiano già lavorato lungamente, in maniera certosina e accuratissima, a un nuovo album della cantautrice neozelandese e che questo vedrà abbastanza presto la luce. Lo aspetto con grande trepidazione perché se in quarantotto ore questa strana coppia è riuscita a mettere insieme il delizioso Sun Casts a Shadow, ho difficoltà a immaginare cosa sarà stata capace di combinare con un progetto di più ampio respiro.
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