The Cribs – Live at the Cavern

Tiziano Casola per TRISTE©

Questa notte a Liverpool/ Tra di voi/ Non sarà certo l’ultima/ Perché so che tornerò” cantava Ricky Shayne in “Vi saluto amici mods” e, a giudicare dall’andazzo della canzone, ho la netta impressione che Liverpool se la immaginasse come una sorta di costiera amalfitana del rock. Probabilmente perché erano gli anni del boom economico, dunque tutto ciò che parlava inglese appariva migliore e poi, banalmente, se da Liverpool arrivava una cosa così fantastica come i primi Beatles, doveva allora trattarsi di un posto bellissimo… E invece no, Liverpool è una schifezza, come la maggior parte delle città inglesi. Credo occupi il secondo o terzo posto nella classifica dei luoghi più spaventosamente disagiati che io abbia mai visitato (e badate bene che le altre due città sullo stesso podio sono comunque inglesi).

A Liverpool ci sono stato tre anni fa, per delle ricerche di archivio (anche qui, forse l’archivio peggio gestito in cui io abbia mai messo piede, insieme a quello di un’importante chiesa romana) e sì, sono rimasto sbigottito dalle condizioni bestiali e di abbandono in cui i senzatetto sembrerebbero vivere lì, così come dalla quantità di sputi e immondizia riversata a terra dai passanti nel giro di pochi metri. Nonostante ciò, a Liverpool ci tornerei per due motivi. Di questi, il secondo è la splendida collezione di dipinti della Walker Art Gallery, ma di quello ora non ci importa. Il primo è invece il Cavern Club.

Da fedele beatlesiano non potevo infatti esimermi dal visitare il luogo dell’esordio dei Quattro. Andai così, senza aspettative, pensando che avrei passato una piacevole mezzoretta a guardare qualche cimelio. E invece ci restai diverse ore, durante le quali mi sparai una decina di cover band tutte dedite solo al repertorio 1962-63 dei Fab Four, perennemente sull’orlo dell’euforia, in mezzo a gente di ogni tipo (comprese diverse ottantenni memori della beatlemania) che per ore, sinceramente, non potettero far altro che urlare e ballare. Non saprei spiegare la gioia immensa che provai in quelle ore, dunque abbiate fede che l’ho provata. E se a un certo punto me ne sono andato via, no, non mi ero annoiato dalla decima Please Please Me, semplicemente dovetti cedere a malincuore al dovere di dormire per stare lucido il giorno dopo. L’ostello lo avevo preso nel palazzo di fronte.

Insomma, il Cavern Club è un posto magico, non c’è storia. Nemmeno le centinaia di ore passate nei miei vent’anni in questo o quell’altro circolo di musica live potrebbero rendermi più affezionato di quanto lo sono al Cavern. Ma ci sei stato solo una volta, direte voi. E chi se ne frega, la mia idea di gioia nasce e risiede là, rispondo io.

Nel corso dei decenni però, al Cavern ci hanno suonato varie band, anche band che mai ci sarebbero capitate se non fosse stato per la fama del luogo, band che con lo spirito del luogo – che lo ripeto, è uno spirito euforico – c’entrano poco e niente. Non è il caso dei Cribs.

Nel 2020, in pieno primo lockdown, la band dei tre fratelli Jarman, per la quale era previsto un concerto al Cavern, ha deciso di farlo lo stesso, senza pubblico (facile, d’altronde, aggiungerei, per una band composta da soli ‘congiunti’, arrivare ognuno dalla rispettiva residenza, chi qua, chi là!). Da qui l’idea di farne un disco live, con annessi video visibili online.

Cosa ci riserva di speciale questo live dei Cribs nel Cavern Club deserto? Tutto e niente. La band si spara il suo greatest hits, suonato per bene, registrato per bene e via dicendo. Tutto liscio come l’olio. Praticamente delle prove aperte. Perché allora dargli un ascolto allora, se già tanto quei pezzi esistono disponibili belli e fatti su disco? Semplice, perché i Cribs se lo meritano. Vi spiego perché.

Primo: per suonare i pezzi dei Cribs è necessario un certo entusiasmo. Senza entusiasmo i power trio non funzionano, specie se dell’entusiasmo hanno fatto la cifra stilistica. Provateci voi a suonare entusiasti senza pubblico, mentre suonate per l’ennesima volta le canzoni di sempre con i vostri parenti di sempre. Bisogna dargliene atto, da quando li conobbi (diciassettenne, in mp3 e sulle spille di qualche amica di scuola) ai Cribs la botta non è mai mancata. Sua maestà Johnny Marr ci aveva visto lungo anni fa.

Secondo: i Cribs, figli di quella gloriosa ondata di indie chitarristico anni duemila, hanno continuato e continuano a fare belle canzoni, bei dischi. La formula è sempre la stessa: powerpop in quattro quarti, accordi di settima maggiore, Fender Mustang e melodie che ti restano stampate in testa. E con tutto ciò, da quarantenni, suonano forse ridicoli? Non mi pare, anzi, quel brividino me lo danno ancora, l’idea che forse sarebbe il caso di chiamare un amico e dirgli “ti va se facciamo un gruppo? Dai che ci divertiamo…”. Provate il recente Night Network per credere.

Terzo: se si vi è rimasta dentro una certa idea di felicità, legata non soltanto al consumo di canzoni pop particolarmente frenetiche, ma al costruirvene di nuove insieme ai vostri cari, migliori amici o fratelli che siano, capirete da voi che il Cavern Club era il posto più giusto per un disco live di quei tre. E poi che splendida copertina.

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